giovedì 20 dicembre 2012

SPORCIZIA

Lavarsi? Un bagno all’anno.
Gabinetti? Non esistevano.
Pulizia delle strade? Macché.
Come eravamo sporchi!
Scordatevi la doccia. Ma anche i cestini della spazzatura e la pulizia delle strade. Se foste vissuti qualche secolo fa probabilmente avreste fatto un solo bagno nella vita. Avreste avuto una sola camicia, raramente lavata. Vi sareste incipriati i capelli invece di fare lo shampoo. E camminando in strada avreste fatto lo slalom tra sporcizia e letame. Le abitudini igieniche moderne arrivarono in Europa solo nel XIX secolo. Prima l’igiene personale era, per i criteri di oggi inesistente.
C’è del marcio. Scorre per le strade delle città un rivoletto d’acqua fetida in cui confluisce l’acqua sporca di tutte le case e che appesta l’aria: così si è costretti a portare in mano dei fiori con un pò di profumo per scacciare quell’odore. Ecco Parigi nella descrizione di un visitatore italiano del ‘500.
Le città sono state sporchissime fino alla metà dell’800. Solo da allora con la rivoluzione idraulica, si dotarono di acquedotti e fognature, per portare acqua nelle case e eliminare le deiezioni.
Le città, per i nostri standard erano luride e puzzolenti. Nelle strade si accumulavano rifiuti, escrementi umani e animali. Girare in carrozza, per i più abbienti, era un modo per tenersi lontano dallo sporco delle strade. Non a caso si usavano stivali alti: servivano a “guardare” lo strato di sporcizia e i rigagnoli di acqua lurida. In città tedesche come Ulm, nel Medioevo si usavano persino trampoli.
L’unica pulizia? Il riciclo. A insozzare le vie contribuivano i molti animali presenti: pecore e capre, maiali e soprattutto cavalli e buoi usati per trainare carri e carrozze. In parte, il letame veniva raccolto e portato in campagna. “C’era un grande commercio di concime”. Ancora nell’800 c’era chi viveva raccogliendo bovazze da vendere ai contadini. E c’erano attività che causavano ulteriori inquinamenti.
I macellai per esempio, uccidevano le bestie nelle strade, dove si riversavano sangue e scarti.
Le concerie erano fonti di scarichi e cattivi odori. Non a caso le amministrazioni cercavano di spostare queste attività ai margini dell’abitato. Rifiuti e liquami in parte, si raccoglievano per riciclarli (come il letame e il contenuto dei pozzi neri). Anche in modi che oggi ci apparirebbero ripugnanti.
L’urina, per esempio, era raccolta per lavorare le pelli e per lavare e sbiancare le stoffe.
Le ossa erano raccolte e triturate per farne concime. Già nell’antichità i tintori avevano botti accanto alle botteghe per raccogliere l’urina. (a Roma era raccolta anche dai gabinetti privati, per rivenderla a conciatori di pelli o tintori di lana. Ciò che non si riciclava, restava nelle strade. Anche perchè la pulizia pubblica non esisteva o era rara. C’erano nelle città pulizie straordinarie in occasione di eventi pubblici. Nella sporchissima Roma, per esempio, venivano tenute pulite le vie percorse dai pellegrini e dalle carrozze dei personaggi che andavano dal Papa. I servizi di pulizia regolare si diffusero solo tra ‘800 e ‘900. La nettezza urbana era approssimativa. Ci furono appalti ad allevatori di maiali, per far ripulire dagli onnivori suini i rifiuti lasciati dal mercato. La provvidenza per la pulizia urbana, era la pioggia. Insomma le città erano così maltenute da far spiccare l’eccezione dell’Olanda, dove i viaggiatori notavano stupiti le strade linde come il pavimento di una camera da letto, e il fatto che non si gettavano gatti morti nei canali...  Il bagno? in cortile. Roma e le antiche città romane avevano sistemi fognari, che però andarono in disuso. Roma antica era più pulita di Parigi o di Londra nel ‘600.
Per secoli le città non ebbero sistemi di smaltimento; le case, del resto, non avevano il bagno. Firenze nel 1100 era così piccola che bastava varcare le mura e andare nei campi. Con l’espansione dei centri urbani, cominciarono i problemi. Sporcizia, puzza, pericoli sanitari. Se in campagna tutto era più facile (bastava una fossa), in città dove finivano i rifiuti “fisiologici? Nelle strade, spesso. Era normale appartarsi in un angolo all’aperto, in androni, cortili, vie. Goethe, ospite di un albergo sul Garda nel 1786, annota che quando chiese dove soddisfare le sue necessità, gli venne tranquillamente indicato il cortile. Nel Medioeveo si approfittava dei “chiassi”, vicoletti tra le case, dove si buttavano i rifiuti attraverso i quali potevano essere sospese rudimentali latrine. In questi intercarpedini tutto si accumulava. E, con le piogge, liquami e rifiuti di ogni tipo si riversavano nelle strade e da qui nel più vicino corso d’acqua trasformato in fogna a cielo aperto; nomi di fiumi come il Nirone, a Milano, o il francese Merderon rivelano l’antico uso. Quando c’erano, i gabinetti erano collegato a fosse o pozzi neri. Che quando erano pieni, andavano svuotati dai “vuotapozzi” e lo spurgo veniva venduto come concime. Le fosse poi potevano essere vicine ai pozzi d’acqua, e se i liquami si infiltravano c’era il rischio di diffusione di malattie. Bisognerà aspettare l’800 perchè le città comincino a dotarsi di fognature. Anche per porre rimedio alle epidemie di colera che flagellarono l’Europa durante il secolo.
Due bagni nella vita. Se le strade erano luride, agli uomini non andava meglio. “I bagni d’acqua... riscaldano il corpo e i suoi umori, ne indeboliscono la natura e ne dilatano i pori, sono cause di morte e di malattia”, si legge in un trattato di medicina di fine ‘400. “La cattiva fama” dell’acqua nacque con le pestilenze: si diffuse la convinzione che allargasse i pori della pelle, permettendo l’ingresso nel corpo dell’aria appestata. Idee incredibili per noi, ma che in un mondo già lavarsi e rifornirsi (a fiumi, pozzi, fontane, o ai bagni pubblici) non era facile, decretarono la scomparsa dei bagni. Se nel ‘400-’500 i nobili facevano un bagno ogni 4-5 mesi, nel ‘600 e in buona parte del ‘700 non ci si lavava per niente.
Il bagno si faceva al massimo come “cura” (e con complesse preparazioni come una purga la sera precedente): il Re Sole Luigi XIV ne fa due su consiglio dei medici, e non vuole più ripetere l’esperienza... Le uniche cose che si lavano sono le mani e la bocca. Non l’intero viso, però: “Lavarsi con l’acqua fa male alla vista, fa venire il mal di denti e il catarro”, si legge in un libro seicentesco sull’educazione dei bambini. Il bagno cominciò lentamente a diffondersi solo nella seconda metà del ‘700, come lusso per le classi agiate e come immersione fredda tonificante. Era dunque ancora lontana dal nostro concetto di pulizia: dame entusiaste dell’acqua facevano 2-3 bagni l’anno.
La camicia che pulisce. Come ci si puliva, senz’acqua? A secco, frizionandosi il corpo e il volto con panni profumati. I profumi servivano a coprire i cattivi odori, inevitabili: un profumo di rosa era consigliato per coprire l’afrore delle ascelle. E tra camicia e panciotti si portavano sacchetti di aromi. Nemmeno i capelli si lavavano: erano sgrassati con polveri e crusca. E cosparsi di cipria profumata: doveva mantenerli soffici anche senza lavaggio. Ma la pulizia consisteva soprattutto nel cambiarsi la biancheria: si pensava che assorbisse il sudiciume. Avere sempre la camicia candida e pulita, appena cambiata diventò un status symbol, perchè solo i più ricchi potevano permettersi di avere tanti ricambi.
Non a caso comparsero colli e polsini che “uscivano” dagli abiti, testimoniando la pulizia e la ricchezza di chi li indossava. E comunque il concetto di “biancheria pulita” era relativo: un nobile francese, il barone di Schomberg, nel 1767 cambia camicia e colletto tutti i giorni, a norma di galateo, ma le mutande ogni 4 settimane. Toilette e camicia erano comunque appannaggio dei ceti abbienti.
I più poveri non solo non si lavavano, ma non lavavano nemmeno gli abiti: spesso non ne avevano di ricambio. C’era chi aveva solo la camicia di canapa costava l’equivalente del salario di 4 giorni e al massimo ogni tanto poteva lavarla in un fiume.
Come facevamo senza...
Niente frigoriferi o lavatrici, fiammiferi o forchette: così si viveva nei secoli passati
Mutande? Fino all’800 gran parte delle donne non portava nulla sotto la gonna. Anche se mutande esistevano già nel XVI secolo.
Posate? Pane e vino, sulla tavola dei contadini. Ma niente forchette, almeno fino al XIX secolo: si mangiava la zuppa con un cucchiaio di legno, il resto con le mani. Le poche posate, come coltelli erano usate in comune.
Piatti? I contadini mangiavano la zuppa dalla ciotola comune. Anche piatti o bicchieri se c’erano, venivano condivisi.
Vetri? Si usavano vari materiali per chiudere le finestre, come carta oleata o stoffa, col tempo sostituiti dal vetro. Ma ancora nell’800 c’erano case contadine con solo scuri di legno alle finestre.
Wc? Si facevano i propri bisogni su sedie con all’interno un pitale. I “water closet”, il gabinetto ad acqua corrente fu inventato già nel 1596 da John Harington, ma cominciò a diffondersi solo due secoli dopo.
Mobili? All’interno di una casa contadina del XVII secolo non c’erano quasi mobili. Sedie e tavoli non erano diffusi, spesso ci si sedeva per terra o su sgabelli.
Biberon? Esistevano dall’antichità pseudo-biberon (ricavati per esempio da corna), poco usati.
I neonati erano affidati alle balie. Un’abitudine frequente tra le donne dei ceti medi e alti fino al XVIII secolo: si pensava di allattare imbruttisse e che le contadine avessero latte migliore.
Privacy? In un quadro del XVI secolo, la dama Gabrielle d’Estrèe: era comune fare il bagno di fronte alla servitù. Che, spesso, dormiva nella camera del padrone.
Armadio? Gli abiti si tenevano in cassapanche. I cassoni erano i mobili più comuni nelle case contadine fino all’800, fino al ‘500 anche tra i ceti sociali alti.
Orologio? Prima della diffusione degli orologi meccanici, si usarono a lungo quelli solari.
Bagni? Si usavano vasi da notte: erano svuotati in pozzi neri o, a volte, direttamente in strada.
O ci arrangiava come si poteva, facendola appena fuori dalla porta di casa.
Letto? O poveri dormivano su paglia, panche, o materassi stesi su tavole appoggiate a cavalletti.
I ricchi, invece, ne avevano anche due: uno per dormire e uno per ricevere visite.
Caloriferi? ci si scaldava con stufe e caminetti. C’erano pure scaldaletti riempiti con le braci: si mettevano tra le lenzuola, in genere dentro strutture di legno, chiamate “preti” o “monache”.
Molti oggetti oggi indispensabili, in passato non esistevano. O erano rari. E si usavano altri metodi: dalla cenere per lavare al sale per conservare i cibi.
Frigoriferi e lavatrici sono arrivati nelle nostre case nel XX secolo. Ma anche i comuni fiammiferi, sono nati solo nell’800. Come questi, molti oggetti che oggi sembrano indispensabili non esistevano o erano troppo cari: dai letti, alle posate. Nei secoli passati, non restava che arrangiarsi. Ecco come i nostri bis-bis-nonni vivevano senza...
Frigorifero I primi frigoriferi domestici apparvero nel 1913. Ma, prima, come si conservavano i cibi?
I più ricchi avevano la “neviera” (dal ‘700 cominciò a essere chiamata ghiacciaia) era una cavità riempita con neve o ghiaccio, spesso mescolati a paglia. Durava per molti mesi o addirittura da un inverno all’altro: i cibi vi venivano sepolti e così si conservavano a lungo spiega Raffaella Sarti, docente di storia moderna all’Università di Urbino e autrice del saggio Vita di casa. Si raccoglievano neve e ghiaccio in inverno, ma si poteva anche “produrre” il ghiaccio in stagni artificiali. “C’erano inoltre commercianti che si rifornivano in montagna e portavano a valle neve o ghiaccio, ben protetti da materiali isolanti, spesso di notte. Nel corso del tempo si sviluppò un commercio su larga scala: nell’800, la Norvegia arrivo a esportare 550.000 tonnellate di ghiaccio all’anno”. E nel tardo ‘800 si aprirono fabbriche di ghiaccio. In alternativa si poteva salare e affumicare il cibo. “Le tecniche di produzione dei salumi sono nate proprio per conservare la carne. Una volta insaccata, salata o affumicata, durava per mesi. Altre tecniche servivano per conservare frutta e verdura: le olive erano messe in salamoia, i fichi seccati, i crauti fatti fermentare in barili... E poi il pane: in molte zone si conservava secco e per mangiarlo si doveva bagnare. In alcune aeree alpine si faceva due volte all’anno. Mutande. Gran parte delle donne non indossava niente, sotto le gonne, fino all’800.
Le mutande femminili non erano usate nonostante fossero comparse in Italia dal ‘300.
All’inizio del ‘700 a Parigi le portavano il 3,5% delle nobili e 1,6% delle domestiche: erano ritenute capo da prostitute a attrici. E il giudizio sulla loro “moralità” era controverso: c’era chi sosteneva che difendessero il pudore, altri lo condannavano perchè era considerato un capo maschile. Erano infatti indumenti da uomini. Le “brache” maschili erano antiche (Celti e Germani le indossavano dal VI secolo): ebbero fogge diverse, larghe o strette, e non distinguevano nettamente dai pantaloni, come oggi. Nel ‘300, per esempio, gli uomini indossavano lunghe calze attillate con una baghetta che copriva i genitali e spesso li enfizzava: non era un capo intimo. Ma esistevano anche capi da portare “sotto”. Nel XIII e XIV secolo, le sarabullas, zarabulle o sorabulle erano simili ai nostri slip, ma poco diffuse. Ancora all’inizio del ‘700, le mutande, pur più comuni tra gli uomini che tra le donne, erano tutt’altre che universali. A Parigi si trovavano nel 20% dei guardaroba di nobili e domestici, nel 17-18% di quelli di salariati, artigiani e bottegai dice Sarti. Orologio C’erano altri mezzi per misurare il tempo, come le meridiane. Gli orologi meccanici comparvero nel ‘200, e dal ‘300 si diffusero nelle città orologi pubblici da torre: non avevano lancette, ma scandivano il tempo con i rintocchi dice la storica. Gli orologi individuali comparvero nel ‘500. Ma la maggior parte delle persone non li userà fino all’800. Gli orari di fabbrica cambiarono il modo di vivere del tempo. Prima la giornata era scandita dall’alternarsi del giorno e della notte e dalle campane, che segnalavano i servizi religiosi. L’anno era scandito dalle stagioni, dal calendario agricolo e dalle feste, in gran parte religiose: molti, tra i più umili, non sapevano neppure quanti anni avevano. Mobili Una casa del 1500 ci sembrerebbe vuota. Escludendo dimore di nobili e borghesi, nelle case più modeste non c’erano quasi mobili.
Niente armadi che si diffonderanno nelle case contadine soprattutto nell’800: biancheria e abiti della famiglia si tenevano in cassapanche. Sedie e tavoli non erano affatto comuni, almeno fino al ‘700: ci si sedeva per terra, su sgabelli, si usavano sedili e tavoli di fortuna. Spesso, non c’era nemmeno il letto: i più poveri dormivano su panche, giacigli di paglia o materassi stesi su assi. Quando c’era era spesso “affollato”: vi si accalcavano più membri della famiglia. Un letto era infatti molto costoso: nella Toscana del ‘700, per esempio, una famiglia di mezzadri doveva risparmiare da 3 a 6 anni per comprarlo. Per i ricchi era un lusso da ostentare: c’era chi ne aveva due, uno per dormire e uno da “parata” dove ricevere visite. Wc Passeggiare in città, nei secoli passati, poteva riservare qualche inconveniente. Al posto del wc c’era il vaso da notte e solo il grido “attenzione all’acqua” avvertiva i passanti che qualcuno stava svuotando un pitale in strada. Non sempre bastava, visto che ci sono arrivate denuncie come quella del signor Falgheri, di Bologna, che nel 1740 querelò un uomo “per averlo bagnato” nelle brache e nel corpetto nel buttare una catinella di piscio inavvertitamente”.
In Olanda, in questi casi era prevista una multa. Nelle città europee c’erano di solito latrine comuni per più abitazioni, come nella Londra del ‘600. E non c’erano nemmeno i gabinetti pubblici diffusi in Oriente, tanto che i viaggiatori musulmani si scandalizzavano. Le cose andavano leggermente meglio per i più abbienti: potevano avere piccoli bagni vicino alle stanze da letto, con scarichi in pozzi neri o canali. O usare le “seggette”, lussuose sedie con all’interno un pitale: li seduti, si facevano anche conversazioni con gli ospiti. Caloriferi Niente caldaie, caloriferi, metano. Bisognava arrangiarsi con legna, carbone, torba, paglia, fieno, i più poveri anche con lo sterco essiccato (bruciava bene come la legna anche se puzzava...). Da usare nei caminetti, inventati in Italia attorno al XII secolo, o nelle stufe, più diffuse nell’europa settentrionale e centrale: spesso erano circondate da panche su cui si poteva dormire al caldo, anche se non comodamente. Chi poteva, usava altri metodi per addormentarsi nel tepore: esistevano scaldetti riempiti con le braci e posti tra le lenzuola, inoltre i più ricchi si dotavano di letti chiusi con baldacchini, tende e cortine per ripararsi dagli spifferi. Alcuni palazzi del Rinascimento avevano un “riscaldamento centralizzato”: c’erano fuochi accesi in intercarpedini nel pavimento e l’aria calda circolava in tubi nelle pareti. Ma in molte case non c’era che un braciere o un focolare senza camino, che fungeva da riscaldamento e da fornello che affumicava la stanza.
E, se oggi il bue e l’asinello compaiono solo nei presepi, spesso i contadini vivevano con le loro bestie nello stesso vano o in spazi comunicanti: era anche un  modo per sfruttarne il calore.
Fiammiferi Oggi ci sembrano oggetti semplici, ma i fiammiferi sono stati inventati “solo” nel 1805, e la produzione industriale iniziò attorno al 1830. Prima c’era l’acciarino: andava sbattuta con forza contro una scheggia di selce cercando di produrre una scintilla efficiente a incendiare un pezzo di stoffa (l’esca). Con questa si accendeva una specie di fiammifero e poi la legna. Un metodo “primitivo”: l’operazione era lunga e faticosa. Veniva lasciata ai servi, se c’erano. O alle donne che in genere curavano il fuoco. Posate “E’ un simbolo del demonio, usarla è peccato”. Che cosa scatenava le ire della Chiesa di Roma? La forchetta inventata forse a Bisanzio e arrivata in Italia attorno al mille, che venne bollata dal clero come simbolo del mondo bizantino. Allora si mangiava con le mani, infilzando i cibi dai piatti comuni con coltelli appuntiti. La forchetta cominciò a diffondersi in Italia e passò lentamente negli altri Paesi. Alla corte di Francia, ancora nel ‘700, c’era chi metteva le mani nel piatto... Non c’è da stupirsi, visto che solo nel ‘500 si era diffusa l’abitudine di dare a ogni convitato, al posto di piatti e posate comuni, bicchiere, piatto cucchiaio e coltello dalla punta tonda per tagliare la carne nel proprio piatto. Fino all’800, comunque, era un uso d’èlite. I contadini mangiavano con un cucchiaio di legno (e con le mani), altre posate erano comuni. Vasca da bagno Esistevano le tinozze, da riempire d’acqua. Ma per alcuni secoli vennero usate poco... Soprattutto nel ‘600 e in parte del ‘700
non ci si lavava affatto: nel 1750, solo il 6% dei palazzi di Parigi aveva un bagno. Si pensava che il bagno facesse male alla salute. Si credeva che gli agenti patogeni penetrassero più facilmente quando i pori della pelle erano dilatati dall’acqua calda spiega Sarti. Per essere puliti, quindi non ci si lavava, ma ci si cambiava la biancheria: si riteneva che assorbisse lo sporco. Solo i privilegiati potevano avere molte camicie sempre pulite, che diventarono così uno “status symbol”. Si tendeva a ostentarle, come segnale di pulizia e ricchezza: ecco perchè comparvero i lunghi polsini e i colletti di pizzo, che spuntavano dagli abiti. Si usavano ciprie e ci si puliva con panni intrisi di profumo, contro gli odori...
Sapone Il sapone fu a lungo un prodotto costoso: per fare il bucato si usava soprattutto il ranno, una miscela di acqua e cenere dice Raffaelle Sarti. Ma persino orina, che sviluppando ammoniaca poteva pulire i tessuti. Le macchie? Si toglievano con allume, oli, succo di limone, crusca, ammoniaca.
Su certi tessuti bianchi, si facevano anche sparire coprendole con la biacca. Lavare non era semplice, in un modo in cui l’acqua doveva essere presa da pozzi, fiumi o fontane, o comprata dagli acquaioli.
Bisognava andare al fiume o al lavatoio, o affidare il bucato a lavandaie o lavandai. Negli ultimi 200 anni comparvero varie “macchine per lavare”, ma tutte azionate a mano. Ancora negli anni ‘20 del secolo scorso c’erano modelli a manovella, che si dovevano riempire d’acqua calda..
Vetri alle finestre I vetri alle finestre si diffusero lentamente, nonostante fossero già presenti al tempo dei Romani. Nelle case comparvero dal ‘300: all’inizio erano lastre o tondini di vetro in un’intelaiatura di piombo, dal ‘600 le lastre divennero più trasparenti e grandi. Col tempo sostituirono altri materiali usati per chiudere le finestre: la carta oleata o le “impannate”, fatte tendendo in un telaio una stoffa impregnata di trementina, per rendere il tessuto più trasparente. Cionostante ancora nell’800 c’erano case contadine con finestre chiuse solo da scuri di legno o addirittura senza finestre. Le finestre, d’altronde, erano considerate un lusso e in vari Paesi, come Francia, Italia o Inghilterra, furono persino tassate.

AGNELLO IN PASTA

Ingredienti per 6  persone
12 fichi verdi o viola
2 filetti d’agnello da 450 g
50 g di frutta secca mista (pistacchi, noci, mandorle)
1 bastoncino di vaniglia
8 fogli di pasta sfoglia
1 cucchiaio di senape piccante
1 fico secco
1 cucchiaio di miele
Una grossa presa di pepe macinato fresco
5 cucchiai d’olio d’oliva
Qualche presa di sale
Preparazione: 15 minuti
Cottura: 20 minuti
Scaldare al forno a 240°. Fare dorare i filetti di agnello da entrambe le parti a fiamma vivace con un cucchiaio d’olio senza cuocerli del tutto. Salate, pepate e separate il grasso evaporato. Frullate finemente il fico secco insieme alla senape e aggiungete un cucchiaio di miele, sale e pepe e versate il tutto sull’agnello. Pennellate con dell’olio d’oliva e fogli di pasta e poi disponeteli su una teglia, due blocchi da quattro ciascuno.
Mettete la carne, ripiegate i fogli a pacchetto. Aggiungete intorno dei fichi, dell’olio e del miele, la frutta secca, la vaniglia e cuocete nel forno per 15 minuti. Lasciate riposare dieci minuti prima di servire.
Il consiglio in più
Accompagnate il piatto con un’insalata d’arancia amara, condita con aglio, cannella, olio e basilico: compensa il dolce del frutto.
Il vino più adatto
Rosso come il Montessu.

BACCANALI

I Baccanali, un caso clamoroso nella Roma antica
Nel 186 a.C. con il “senatus consultus de Bacchanalibus”, si proibirono definitivamente i famosi “Bacchanalia”, celebrazioni rituali che si svolgevano per onorare il dio Bacco, vietando altresì che per il futuro nessuno si riunisse più in simili associazioni. Questo drastico provvedimento era stato la conseguenza di un’accurata inchiesta scaturita dallo scandalo che aveva coinvolto molti personaggi in vista della comunità romana. La vicenda si era delineata in tutti i suoi turpi contorni grazie all’intervento di Ebuzia, una signora residente sull’Aventino il cui nipote, suo malgrado, stava per essere iniziato ai Baccanali. Publio Ebuzio era figlio di Duronia che rimasta vedova quando lui era piccolo, si era risposata con Tito Sempronio Rutilio. L’uomo grazie alla tutela del figlio adottivo si era permesso di sperperare tutto il denaro che possedeva e ora, lui alla vigilia del compimento della maggiore età, temeva che il ragazzo rivendicasse i propri possedimenti. Cercò quindi di trovare un espediente per poterlo ricattare e coinvolse la moglie nel suo losco progetto. Duronia, infatti, convinse il figlio, che, per assolvere al voto fatto affinché guarisse da una malattia, doveva essere iniziato ai riti bacchici. La fase preliminare prevedeva che il giovane vivesse in castità per dieci giorni precedenti la cerimonia. Ebuzio raccontò la faccenda a Ispala Facezia, una libera meretrice a cui era legato da tempo e che nei momenti di difficoltà l’aveva sempre aiutato, dato che la sua famiglia si era dimostrata molto parsimoniosa nei suoi confronti. La donna che conosceva i rituali delle baccanti, capì immediatamente le intenzioni del patrigno. Una volta che il giovane avesse partecipato alle orrende nefandezze che si raccontava capitassero in quella setta, la sua reputazione sarebbe stata per sempre compromessa e non avrebbe più potuto rivendicare le legittime proprietà. Era noto infatti che nelle notti durante le quali avvenivano i riti misterici, rigorosamente segreti, i partecipanti venissero obbligati a compiere atrocità e delitti, ed unirsi promiscuamente, a usare veleno e torture per estorcere denaro e creare beneficiari di testamenti. Il tutto capitava sotto l’effetto di sostanze allucinogene e vino al ritmo e sfrenato assordante di timpani e cembali. Negli ultimi tempi la situazione si era aggravata poiché i sacerdoti tendevano a introdurre nella setta solo giovani con meno di vent’anni, più malleabili a subire e commettere le suddette atrocità. Al ritorno Ebuzio si rifiutò categoricamente di partecipare ai Baccanali e per tutta risposta fu cacciato di casa. Trovò ospitalità dalla zia Ebuzia che lo convinse a raccontare la vicenda al console Postumio.
Il console avviò le indagini e convocò Ispala. Ci volle parecchio prima di riuscire a convincere la donna a fornire tutte le spiegazioni del caso poiché da piccola, ancora schiava, aveva partecipato ai riti insieme alla sua padrona per cui sapeva molte cose in proposito ma temeva la vendetta di coloro che aderivano alla setta. Venne fuori così che anticamente questo rituale di origine straniera era riservato alle sole donne. Le matrone venivano iniziate nel corso di cerimonie organizzate tre volte all’anno, alla luce del giorno. In seguito la sacerdotessa campana Paculla Annia aveva stabilito arbitrariamente di ammettere anche gli uomini ai riti, che si dovevano tenere solo nelle ore notturne e per cinque volte all’anno.
Quando il quadro fu chiaro e completo il console riferì i risultati delle indagini al senato che non poté esimersi  dal prendere provvedimenti estesi non solo a Roma ma all’Italia intera. I crimini e gli adepti erano cresciuti nell’ultimo periodo in maniera esponenziale e le forze dell’ordine allarmate non potevano ignorare che il fenomeno rischiava di minare seriamente l’autorità del governo. All’indomani dei primi provvedimenti fioccarono le denunce che misero allo scoperto un giro di persone il cui numero superava i settemila seguaci. La campagna denigratoria nei confronti delle religioni straniere ebbe così valide fondamenta, andando a colpire soprattutto determinate fazioni politiche. La pena minore per chi aveva solo giuramento, senza cadere in azioni disonorevoli, prevedeva solo la costrizione in catene, agli altri spettava la morte. Alla fine del caso il numero di coloro che avevano perso la vita era superiore a quelli in gattabuia e tra loro si contavano soprattutto donne. Ispala ed Ebuzio dal canto loro vennero protetti con rigide precauzioni e i loro servigi compensati con soldi dello stato per una cifra di 100 mila assi di bronzo. Non era forse un caso  che, in seguito alle loro denunce, fra i condannati a morte comparissero i nomi degli esponenti di quella classe di “negotiatores” della plebe adagiata che tanto si erano arricchiti a discapito dell’aristocrazia patrizia…

lunedì 3 dicembre 2012

ZUPPA D'ORTICHE


Zuppa d’ortiche
INGREDIENTI PER 4 PERSONE
400 g di ortica in foglie intere
60 g di burro
3 cucchiai di olio extravergine di oliva
1 cipolla media
1 l di brodo di pollo
2 cucchiai di farina
2,5 dl di panna liquida
40 g di parmigiano grattugiato
4 fette di pane casereccio
Sale e pepe
Preparazione
Sbollentate le foglie d’ortica per ½ minuto, quindi sgocciolate e tritatele finemente. Tritate anche la cipolla e fatela imbiondire in una casseruola con 30 g di burro; aggiungete le ortiche e cuocere a fuoco dolce finché non sono tenere. Unite la farina, amalgamandola alle ortiche, versare il brodo e portare a bollore, sempre mescolando. Salare, pepare, coprire e lasciare sobbollire per circa 20 minuto. Togliere dal fuoco e fate intiepidire.
Eliminate la crosta dalle fette di pane, taglie tele a dadini e friggetele nell’olio unito al burro rimasto. Quando saranno dorate, fatele asciugare su carta assorbente e tenetela in caldo.
In una ciotola mescolate la panna con il parmigiano e aggiungete un mestolo di minestra.
Versare il composto in una casseruola, rimettetela sul fuoco e scaldate lentamente facendo addensare la zuppa. Aggiustate eventualmente di sale e pepe, trasferite il contenuto in una zuppiera e servite immediatamente con i crostini di pane a parte.