giovedì 20 dicembre 2012

SPORCIZIA

Lavarsi? Un bagno all’anno.
Gabinetti? Non esistevano.
Pulizia delle strade? Macché.
Come eravamo sporchi!
Scordatevi la doccia. Ma anche i cestini della spazzatura e la pulizia delle strade. Se foste vissuti qualche secolo fa probabilmente avreste fatto un solo bagno nella vita. Avreste avuto una sola camicia, raramente lavata. Vi sareste incipriati i capelli invece di fare lo shampoo. E camminando in strada avreste fatto lo slalom tra sporcizia e letame. Le abitudini igieniche moderne arrivarono in Europa solo nel XIX secolo. Prima l’igiene personale era, per i criteri di oggi inesistente.
C’è del marcio. Scorre per le strade delle città un rivoletto d’acqua fetida in cui confluisce l’acqua sporca di tutte le case e che appesta l’aria: così si è costretti a portare in mano dei fiori con un pò di profumo per scacciare quell’odore. Ecco Parigi nella descrizione di un visitatore italiano del ‘500.
Le città sono state sporchissime fino alla metà dell’800. Solo da allora con la rivoluzione idraulica, si dotarono di acquedotti e fognature, per portare acqua nelle case e eliminare le deiezioni.
Le città, per i nostri standard erano luride e puzzolenti. Nelle strade si accumulavano rifiuti, escrementi umani e animali. Girare in carrozza, per i più abbienti, era un modo per tenersi lontano dallo sporco delle strade. Non a caso si usavano stivali alti: servivano a “guardare” lo strato di sporcizia e i rigagnoli di acqua lurida. In città tedesche come Ulm, nel Medioevo si usavano persino trampoli.
L’unica pulizia? Il riciclo. A insozzare le vie contribuivano i molti animali presenti: pecore e capre, maiali e soprattutto cavalli e buoi usati per trainare carri e carrozze. In parte, il letame veniva raccolto e portato in campagna. “C’era un grande commercio di concime”. Ancora nell’800 c’era chi viveva raccogliendo bovazze da vendere ai contadini. E c’erano attività che causavano ulteriori inquinamenti.
I macellai per esempio, uccidevano le bestie nelle strade, dove si riversavano sangue e scarti.
Le concerie erano fonti di scarichi e cattivi odori. Non a caso le amministrazioni cercavano di spostare queste attività ai margini dell’abitato. Rifiuti e liquami in parte, si raccoglievano per riciclarli (come il letame e il contenuto dei pozzi neri). Anche in modi che oggi ci apparirebbero ripugnanti.
L’urina, per esempio, era raccolta per lavorare le pelli e per lavare e sbiancare le stoffe.
Le ossa erano raccolte e triturate per farne concime. Già nell’antichità i tintori avevano botti accanto alle botteghe per raccogliere l’urina. (a Roma era raccolta anche dai gabinetti privati, per rivenderla a conciatori di pelli o tintori di lana. Ciò che non si riciclava, restava nelle strade. Anche perchè la pulizia pubblica non esisteva o era rara. C’erano nelle città pulizie straordinarie in occasione di eventi pubblici. Nella sporchissima Roma, per esempio, venivano tenute pulite le vie percorse dai pellegrini e dalle carrozze dei personaggi che andavano dal Papa. I servizi di pulizia regolare si diffusero solo tra ‘800 e ‘900. La nettezza urbana era approssimativa. Ci furono appalti ad allevatori di maiali, per far ripulire dagli onnivori suini i rifiuti lasciati dal mercato. La provvidenza per la pulizia urbana, era la pioggia. Insomma le città erano così maltenute da far spiccare l’eccezione dell’Olanda, dove i viaggiatori notavano stupiti le strade linde come il pavimento di una camera da letto, e il fatto che non si gettavano gatti morti nei canali...  Il bagno? in cortile. Roma e le antiche città romane avevano sistemi fognari, che però andarono in disuso. Roma antica era più pulita di Parigi o di Londra nel ‘600.
Per secoli le città non ebbero sistemi di smaltimento; le case, del resto, non avevano il bagno. Firenze nel 1100 era così piccola che bastava varcare le mura e andare nei campi. Con l’espansione dei centri urbani, cominciarono i problemi. Sporcizia, puzza, pericoli sanitari. Se in campagna tutto era più facile (bastava una fossa), in città dove finivano i rifiuti “fisiologici? Nelle strade, spesso. Era normale appartarsi in un angolo all’aperto, in androni, cortili, vie. Goethe, ospite di un albergo sul Garda nel 1786, annota che quando chiese dove soddisfare le sue necessità, gli venne tranquillamente indicato il cortile. Nel Medioeveo si approfittava dei “chiassi”, vicoletti tra le case, dove si buttavano i rifiuti attraverso i quali potevano essere sospese rudimentali latrine. In questi intercarpedini tutto si accumulava. E, con le piogge, liquami e rifiuti di ogni tipo si riversavano nelle strade e da qui nel più vicino corso d’acqua trasformato in fogna a cielo aperto; nomi di fiumi come il Nirone, a Milano, o il francese Merderon rivelano l’antico uso. Quando c’erano, i gabinetti erano collegato a fosse o pozzi neri. Che quando erano pieni, andavano svuotati dai “vuotapozzi” e lo spurgo veniva venduto come concime. Le fosse poi potevano essere vicine ai pozzi d’acqua, e se i liquami si infiltravano c’era il rischio di diffusione di malattie. Bisognerà aspettare l’800 perchè le città comincino a dotarsi di fognature. Anche per porre rimedio alle epidemie di colera che flagellarono l’Europa durante il secolo.
Due bagni nella vita. Se le strade erano luride, agli uomini non andava meglio. “I bagni d’acqua... riscaldano il corpo e i suoi umori, ne indeboliscono la natura e ne dilatano i pori, sono cause di morte e di malattia”, si legge in un trattato di medicina di fine ‘400. “La cattiva fama” dell’acqua nacque con le pestilenze: si diffuse la convinzione che allargasse i pori della pelle, permettendo l’ingresso nel corpo dell’aria appestata. Idee incredibili per noi, ma che in un mondo già lavarsi e rifornirsi (a fiumi, pozzi, fontane, o ai bagni pubblici) non era facile, decretarono la scomparsa dei bagni. Se nel ‘400-’500 i nobili facevano un bagno ogni 4-5 mesi, nel ‘600 e in buona parte del ‘700 non ci si lavava per niente.
Il bagno si faceva al massimo come “cura” (e con complesse preparazioni come una purga la sera precedente): il Re Sole Luigi XIV ne fa due su consiglio dei medici, e non vuole più ripetere l’esperienza... Le uniche cose che si lavano sono le mani e la bocca. Non l’intero viso, però: “Lavarsi con l’acqua fa male alla vista, fa venire il mal di denti e il catarro”, si legge in un libro seicentesco sull’educazione dei bambini. Il bagno cominciò lentamente a diffondersi solo nella seconda metà del ‘700, come lusso per le classi agiate e come immersione fredda tonificante. Era dunque ancora lontana dal nostro concetto di pulizia: dame entusiaste dell’acqua facevano 2-3 bagni l’anno.
La camicia che pulisce. Come ci si puliva, senz’acqua? A secco, frizionandosi il corpo e il volto con panni profumati. I profumi servivano a coprire i cattivi odori, inevitabili: un profumo di rosa era consigliato per coprire l’afrore delle ascelle. E tra camicia e panciotti si portavano sacchetti di aromi. Nemmeno i capelli si lavavano: erano sgrassati con polveri e crusca. E cosparsi di cipria profumata: doveva mantenerli soffici anche senza lavaggio. Ma la pulizia consisteva soprattutto nel cambiarsi la biancheria: si pensava che assorbisse il sudiciume. Avere sempre la camicia candida e pulita, appena cambiata diventò un status symbol, perchè solo i più ricchi potevano permettersi di avere tanti ricambi.
Non a caso comparsero colli e polsini che “uscivano” dagli abiti, testimoniando la pulizia e la ricchezza di chi li indossava. E comunque il concetto di “biancheria pulita” era relativo: un nobile francese, il barone di Schomberg, nel 1767 cambia camicia e colletto tutti i giorni, a norma di galateo, ma le mutande ogni 4 settimane. Toilette e camicia erano comunque appannaggio dei ceti abbienti.
I più poveri non solo non si lavavano, ma non lavavano nemmeno gli abiti: spesso non ne avevano di ricambio. C’era chi aveva solo la camicia di canapa costava l’equivalente del salario di 4 giorni e al massimo ogni tanto poteva lavarla in un fiume.
Come facevamo senza...
Niente frigoriferi o lavatrici, fiammiferi o forchette: così si viveva nei secoli passati
Mutande? Fino all’800 gran parte delle donne non portava nulla sotto la gonna. Anche se mutande esistevano già nel XVI secolo.
Posate? Pane e vino, sulla tavola dei contadini. Ma niente forchette, almeno fino al XIX secolo: si mangiava la zuppa con un cucchiaio di legno, il resto con le mani. Le poche posate, come coltelli erano usate in comune.
Piatti? I contadini mangiavano la zuppa dalla ciotola comune. Anche piatti o bicchieri se c’erano, venivano condivisi.
Vetri? Si usavano vari materiali per chiudere le finestre, come carta oleata o stoffa, col tempo sostituiti dal vetro. Ma ancora nell’800 c’erano case contadine con solo scuri di legno alle finestre.
Wc? Si facevano i propri bisogni su sedie con all’interno un pitale. I “water closet”, il gabinetto ad acqua corrente fu inventato già nel 1596 da John Harington, ma cominciò a diffondersi solo due secoli dopo.
Mobili? All’interno di una casa contadina del XVII secolo non c’erano quasi mobili. Sedie e tavoli non erano diffusi, spesso ci si sedeva per terra o su sgabelli.
Biberon? Esistevano dall’antichità pseudo-biberon (ricavati per esempio da corna), poco usati.
I neonati erano affidati alle balie. Un’abitudine frequente tra le donne dei ceti medi e alti fino al XVIII secolo: si pensava di allattare imbruttisse e che le contadine avessero latte migliore.
Privacy? In un quadro del XVI secolo, la dama Gabrielle d’Estrèe: era comune fare il bagno di fronte alla servitù. Che, spesso, dormiva nella camera del padrone.
Armadio? Gli abiti si tenevano in cassapanche. I cassoni erano i mobili più comuni nelle case contadine fino all’800, fino al ‘500 anche tra i ceti sociali alti.
Orologio? Prima della diffusione degli orologi meccanici, si usarono a lungo quelli solari.
Bagni? Si usavano vasi da notte: erano svuotati in pozzi neri o, a volte, direttamente in strada.
O ci arrangiava come si poteva, facendola appena fuori dalla porta di casa.
Letto? O poveri dormivano su paglia, panche, o materassi stesi su tavole appoggiate a cavalletti.
I ricchi, invece, ne avevano anche due: uno per dormire e uno per ricevere visite.
Caloriferi? ci si scaldava con stufe e caminetti. C’erano pure scaldaletti riempiti con le braci: si mettevano tra le lenzuola, in genere dentro strutture di legno, chiamate “preti” o “monache”.
Molti oggetti oggi indispensabili, in passato non esistevano. O erano rari. E si usavano altri metodi: dalla cenere per lavare al sale per conservare i cibi.
Frigoriferi e lavatrici sono arrivati nelle nostre case nel XX secolo. Ma anche i comuni fiammiferi, sono nati solo nell’800. Come questi, molti oggetti che oggi sembrano indispensabili non esistevano o erano troppo cari: dai letti, alle posate. Nei secoli passati, non restava che arrangiarsi. Ecco come i nostri bis-bis-nonni vivevano senza...
Frigorifero I primi frigoriferi domestici apparvero nel 1913. Ma, prima, come si conservavano i cibi?
I più ricchi avevano la “neviera” (dal ‘700 cominciò a essere chiamata ghiacciaia) era una cavità riempita con neve o ghiaccio, spesso mescolati a paglia. Durava per molti mesi o addirittura da un inverno all’altro: i cibi vi venivano sepolti e così si conservavano a lungo spiega Raffaella Sarti, docente di storia moderna all’Università di Urbino e autrice del saggio Vita di casa. Si raccoglievano neve e ghiaccio in inverno, ma si poteva anche “produrre” il ghiaccio in stagni artificiali. “C’erano inoltre commercianti che si rifornivano in montagna e portavano a valle neve o ghiaccio, ben protetti da materiali isolanti, spesso di notte. Nel corso del tempo si sviluppò un commercio su larga scala: nell’800, la Norvegia arrivo a esportare 550.000 tonnellate di ghiaccio all’anno”. E nel tardo ‘800 si aprirono fabbriche di ghiaccio. In alternativa si poteva salare e affumicare il cibo. “Le tecniche di produzione dei salumi sono nate proprio per conservare la carne. Una volta insaccata, salata o affumicata, durava per mesi. Altre tecniche servivano per conservare frutta e verdura: le olive erano messe in salamoia, i fichi seccati, i crauti fatti fermentare in barili... E poi il pane: in molte zone si conservava secco e per mangiarlo si doveva bagnare. In alcune aeree alpine si faceva due volte all’anno. Mutande. Gran parte delle donne non indossava niente, sotto le gonne, fino all’800.
Le mutande femminili non erano usate nonostante fossero comparse in Italia dal ‘300.
All’inizio del ‘700 a Parigi le portavano il 3,5% delle nobili e 1,6% delle domestiche: erano ritenute capo da prostitute a attrici. E il giudizio sulla loro “moralità” era controverso: c’era chi sosteneva che difendessero il pudore, altri lo condannavano perchè era considerato un capo maschile. Erano infatti indumenti da uomini. Le “brache” maschili erano antiche (Celti e Germani le indossavano dal VI secolo): ebbero fogge diverse, larghe o strette, e non distinguevano nettamente dai pantaloni, come oggi. Nel ‘300, per esempio, gli uomini indossavano lunghe calze attillate con una baghetta che copriva i genitali e spesso li enfizzava: non era un capo intimo. Ma esistevano anche capi da portare “sotto”. Nel XIII e XIV secolo, le sarabullas, zarabulle o sorabulle erano simili ai nostri slip, ma poco diffuse. Ancora all’inizio del ‘700, le mutande, pur più comuni tra gli uomini che tra le donne, erano tutt’altre che universali. A Parigi si trovavano nel 20% dei guardaroba di nobili e domestici, nel 17-18% di quelli di salariati, artigiani e bottegai dice Sarti. Orologio C’erano altri mezzi per misurare il tempo, come le meridiane. Gli orologi meccanici comparvero nel ‘200, e dal ‘300 si diffusero nelle città orologi pubblici da torre: non avevano lancette, ma scandivano il tempo con i rintocchi dice la storica. Gli orologi individuali comparvero nel ‘500. Ma la maggior parte delle persone non li userà fino all’800. Gli orari di fabbrica cambiarono il modo di vivere del tempo. Prima la giornata era scandita dall’alternarsi del giorno e della notte e dalle campane, che segnalavano i servizi religiosi. L’anno era scandito dalle stagioni, dal calendario agricolo e dalle feste, in gran parte religiose: molti, tra i più umili, non sapevano neppure quanti anni avevano. Mobili Una casa del 1500 ci sembrerebbe vuota. Escludendo dimore di nobili e borghesi, nelle case più modeste non c’erano quasi mobili.
Niente armadi che si diffonderanno nelle case contadine soprattutto nell’800: biancheria e abiti della famiglia si tenevano in cassapanche. Sedie e tavoli non erano affatto comuni, almeno fino al ‘700: ci si sedeva per terra, su sgabelli, si usavano sedili e tavoli di fortuna. Spesso, non c’era nemmeno il letto: i più poveri dormivano su panche, giacigli di paglia o materassi stesi su assi. Quando c’era era spesso “affollato”: vi si accalcavano più membri della famiglia. Un letto era infatti molto costoso: nella Toscana del ‘700, per esempio, una famiglia di mezzadri doveva risparmiare da 3 a 6 anni per comprarlo. Per i ricchi era un lusso da ostentare: c’era chi ne aveva due, uno per dormire e uno da “parata” dove ricevere visite. Wc Passeggiare in città, nei secoli passati, poteva riservare qualche inconveniente. Al posto del wc c’era il vaso da notte e solo il grido “attenzione all’acqua” avvertiva i passanti che qualcuno stava svuotando un pitale in strada. Non sempre bastava, visto che ci sono arrivate denuncie come quella del signor Falgheri, di Bologna, che nel 1740 querelò un uomo “per averlo bagnato” nelle brache e nel corpetto nel buttare una catinella di piscio inavvertitamente”.
In Olanda, in questi casi era prevista una multa. Nelle città europee c’erano di solito latrine comuni per più abitazioni, come nella Londra del ‘600. E non c’erano nemmeno i gabinetti pubblici diffusi in Oriente, tanto che i viaggiatori musulmani si scandalizzavano. Le cose andavano leggermente meglio per i più abbienti: potevano avere piccoli bagni vicino alle stanze da letto, con scarichi in pozzi neri o canali. O usare le “seggette”, lussuose sedie con all’interno un pitale: li seduti, si facevano anche conversazioni con gli ospiti. Caloriferi Niente caldaie, caloriferi, metano. Bisognava arrangiarsi con legna, carbone, torba, paglia, fieno, i più poveri anche con lo sterco essiccato (bruciava bene come la legna anche se puzzava...). Da usare nei caminetti, inventati in Italia attorno al XII secolo, o nelle stufe, più diffuse nell’europa settentrionale e centrale: spesso erano circondate da panche su cui si poteva dormire al caldo, anche se non comodamente. Chi poteva, usava altri metodi per addormentarsi nel tepore: esistevano scaldetti riempiti con le braci e posti tra le lenzuola, inoltre i più ricchi si dotavano di letti chiusi con baldacchini, tende e cortine per ripararsi dagli spifferi. Alcuni palazzi del Rinascimento avevano un “riscaldamento centralizzato”: c’erano fuochi accesi in intercarpedini nel pavimento e l’aria calda circolava in tubi nelle pareti. Ma in molte case non c’era che un braciere o un focolare senza camino, che fungeva da riscaldamento e da fornello che affumicava la stanza.
E, se oggi il bue e l’asinello compaiono solo nei presepi, spesso i contadini vivevano con le loro bestie nello stesso vano o in spazi comunicanti: era anche un  modo per sfruttarne il calore.
Fiammiferi Oggi ci sembrano oggetti semplici, ma i fiammiferi sono stati inventati “solo” nel 1805, e la produzione industriale iniziò attorno al 1830. Prima c’era l’acciarino: andava sbattuta con forza contro una scheggia di selce cercando di produrre una scintilla efficiente a incendiare un pezzo di stoffa (l’esca). Con questa si accendeva una specie di fiammifero e poi la legna. Un metodo “primitivo”: l’operazione era lunga e faticosa. Veniva lasciata ai servi, se c’erano. O alle donne che in genere curavano il fuoco. Posate “E’ un simbolo del demonio, usarla è peccato”. Che cosa scatenava le ire della Chiesa di Roma? La forchetta inventata forse a Bisanzio e arrivata in Italia attorno al mille, che venne bollata dal clero come simbolo del mondo bizantino. Allora si mangiava con le mani, infilzando i cibi dai piatti comuni con coltelli appuntiti. La forchetta cominciò a diffondersi in Italia e passò lentamente negli altri Paesi. Alla corte di Francia, ancora nel ‘700, c’era chi metteva le mani nel piatto... Non c’è da stupirsi, visto che solo nel ‘500 si era diffusa l’abitudine di dare a ogni convitato, al posto di piatti e posate comuni, bicchiere, piatto cucchiaio e coltello dalla punta tonda per tagliare la carne nel proprio piatto. Fino all’800, comunque, era un uso d’èlite. I contadini mangiavano con un cucchiaio di legno (e con le mani), altre posate erano comuni. Vasca da bagno Esistevano le tinozze, da riempire d’acqua. Ma per alcuni secoli vennero usate poco... Soprattutto nel ‘600 e in parte del ‘700
non ci si lavava affatto: nel 1750, solo il 6% dei palazzi di Parigi aveva un bagno. Si pensava che il bagno facesse male alla salute. Si credeva che gli agenti patogeni penetrassero più facilmente quando i pori della pelle erano dilatati dall’acqua calda spiega Sarti. Per essere puliti, quindi non ci si lavava, ma ci si cambiava la biancheria: si riteneva che assorbisse lo sporco. Solo i privilegiati potevano avere molte camicie sempre pulite, che diventarono così uno “status symbol”. Si tendeva a ostentarle, come segnale di pulizia e ricchezza: ecco perchè comparvero i lunghi polsini e i colletti di pizzo, che spuntavano dagli abiti. Si usavano ciprie e ci si puliva con panni intrisi di profumo, contro gli odori...
Sapone Il sapone fu a lungo un prodotto costoso: per fare il bucato si usava soprattutto il ranno, una miscela di acqua e cenere dice Raffaelle Sarti. Ma persino orina, che sviluppando ammoniaca poteva pulire i tessuti. Le macchie? Si toglievano con allume, oli, succo di limone, crusca, ammoniaca.
Su certi tessuti bianchi, si facevano anche sparire coprendole con la biacca. Lavare non era semplice, in un modo in cui l’acqua doveva essere presa da pozzi, fiumi o fontane, o comprata dagli acquaioli.
Bisognava andare al fiume o al lavatoio, o affidare il bucato a lavandaie o lavandai. Negli ultimi 200 anni comparvero varie “macchine per lavare”, ma tutte azionate a mano. Ancora negli anni ‘20 del secolo scorso c’erano modelli a manovella, che si dovevano riempire d’acqua calda..
Vetri alle finestre I vetri alle finestre si diffusero lentamente, nonostante fossero già presenti al tempo dei Romani. Nelle case comparvero dal ‘300: all’inizio erano lastre o tondini di vetro in un’intelaiatura di piombo, dal ‘600 le lastre divennero più trasparenti e grandi. Col tempo sostituirono altri materiali usati per chiudere le finestre: la carta oleata o le “impannate”, fatte tendendo in un telaio una stoffa impregnata di trementina, per rendere il tessuto più trasparente. Cionostante ancora nell’800 c’erano case contadine con finestre chiuse solo da scuri di legno o addirittura senza finestre. Le finestre, d’altronde, erano considerate un lusso e in vari Paesi, come Francia, Italia o Inghilterra, furono persino tassate.

AGNELLO IN PASTA

Ingredienti per 6  persone
12 fichi verdi o viola
2 filetti d’agnello da 450 g
50 g di frutta secca mista (pistacchi, noci, mandorle)
1 bastoncino di vaniglia
8 fogli di pasta sfoglia
1 cucchiaio di senape piccante
1 fico secco
1 cucchiaio di miele
Una grossa presa di pepe macinato fresco
5 cucchiai d’olio d’oliva
Qualche presa di sale
Preparazione: 15 minuti
Cottura: 20 minuti
Scaldare al forno a 240°. Fare dorare i filetti di agnello da entrambe le parti a fiamma vivace con un cucchiaio d’olio senza cuocerli del tutto. Salate, pepate e separate il grasso evaporato. Frullate finemente il fico secco insieme alla senape e aggiungete un cucchiaio di miele, sale e pepe e versate il tutto sull’agnello. Pennellate con dell’olio d’oliva e fogli di pasta e poi disponeteli su una teglia, due blocchi da quattro ciascuno.
Mettete la carne, ripiegate i fogli a pacchetto. Aggiungete intorno dei fichi, dell’olio e del miele, la frutta secca, la vaniglia e cuocete nel forno per 15 minuti. Lasciate riposare dieci minuti prima di servire.
Il consiglio in più
Accompagnate il piatto con un’insalata d’arancia amara, condita con aglio, cannella, olio e basilico: compensa il dolce del frutto.
Il vino più adatto
Rosso come il Montessu.

BACCANALI

I Baccanali, un caso clamoroso nella Roma antica
Nel 186 a.C. con il “senatus consultus de Bacchanalibus”, si proibirono definitivamente i famosi “Bacchanalia”, celebrazioni rituali che si svolgevano per onorare il dio Bacco, vietando altresì che per il futuro nessuno si riunisse più in simili associazioni. Questo drastico provvedimento era stato la conseguenza di un’accurata inchiesta scaturita dallo scandalo che aveva coinvolto molti personaggi in vista della comunità romana. La vicenda si era delineata in tutti i suoi turpi contorni grazie all’intervento di Ebuzia, una signora residente sull’Aventino il cui nipote, suo malgrado, stava per essere iniziato ai Baccanali. Publio Ebuzio era figlio di Duronia che rimasta vedova quando lui era piccolo, si era risposata con Tito Sempronio Rutilio. L’uomo grazie alla tutela del figlio adottivo si era permesso di sperperare tutto il denaro che possedeva e ora, lui alla vigilia del compimento della maggiore età, temeva che il ragazzo rivendicasse i propri possedimenti. Cercò quindi di trovare un espediente per poterlo ricattare e coinvolse la moglie nel suo losco progetto. Duronia, infatti, convinse il figlio, che, per assolvere al voto fatto affinché guarisse da una malattia, doveva essere iniziato ai riti bacchici. La fase preliminare prevedeva che il giovane vivesse in castità per dieci giorni precedenti la cerimonia. Ebuzio raccontò la faccenda a Ispala Facezia, una libera meretrice a cui era legato da tempo e che nei momenti di difficoltà l’aveva sempre aiutato, dato che la sua famiglia si era dimostrata molto parsimoniosa nei suoi confronti. La donna che conosceva i rituali delle baccanti, capì immediatamente le intenzioni del patrigno. Una volta che il giovane avesse partecipato alle orrende nefandezze che si raccontava capitassero in quella setta, la sua reputazione sarebbe stata per sempre compromessa e non avrebbe più potuto rivendicare le legittime proprietà. Era noto infatti che nelle notti durante le quali avvenivano i riti misterici, rigorosamente segreti, i partecipanti venissero obbligati a compiere atrocità e delitti, ed unirsi promiscuamente, a usare veleno e torture per estorcere denaro e creare beneficiari di testamenti. Il tutto capitava sotto l’effetto di sostanze allucinogene e vino al ritmo e sfrenato assordante di timpani e cembali. Negli ultimi tempi la situazione si era aggravata poiché i sacerdoti tendevano a introdurre nella setta solo giovani con meno di vent’anni, più malleabili a subire e commettere le suddette atrocità. Al ritorno Ebuzio si rifiutò categoricamente di partecipare ai Baccanali e per tutta risposta fu cacciato di casa. Trovò ospitalità dalla zia Ebuzia che lo convinse a raccontare la vicenda al console Postumio.
Il console avviò le indagini e convocò Ispala. Ci volle parecchio prima di riuscire a convincere la donna a fornire tutte le spiegazioni del caso poiché da piccola, ancora schiava, aveva partecipato ai riti insieme alla sua padrona per cui sapeva molte cose in proposito ma temeva la vendetta di coloro che aderivano alla setta. Venne fuori così che anticamente questo rituale di origine straniera era riservato alle sole donne. Le matrone venivano iniziate nel corso di cerimonie organizzate tre volte all’anno, alla luce del giorno. In seguito la sacerdotessa campana Paculla Annia aveva stabilito arbitrariamente di ammettere anche gli uomini ai riti, che si dovevano tenere solo nelle ore notturne e per cinque volte all’anno.
Quando il quadro fu chiaro e completo il console riferì i risultati delle indagini al senato che non poté esimersi  dal prendere provvedimenti estesi non solo a Roma ma all’Italia intera. I crimini e gli adepti erano cresciuti nell’ultimo periodo in maniera esponenziale e le forze dell’ordine allarmate non potevano ignorare che il fenomeno rischiava di minare seriamente l’autorità del governo. All’indomani dei primi provvedimenti fioccarono le denunce che misero allo scoperto un giro di persone il cui numero superava i settemila seguaci. La campagna denigratoria nei confronti delle religioni straniere ebbe così valide fondamenta, andando a colpire soprattutto determinate fazioni politiche. La pena minore per chi aveva solo giuramento, senza cadere in azioni disonorevoli, prevedeva solo la costrizione in catene, agli altri spettava la morte. Alla fine del caso il numero di coloro che avevano perso la vita era superiore a quelli in gattabuia e tra loro si contavano soprattutto donne. Ispala ed Ebuzio dal canto loro vennero protetti con rigide precauzioni e i loro servigi compensati con soldi dello stato per una cifra di 100 mila assi di bronzo. Non era forse un caso  che, in seguito alle loro denunce, fra i condannati a morte comparissero i nomi degli esponenti di quella classe di “negotiatores” della plebe adagiata che tanto si erano arricchiti a discapito dell’aristocrazia patrizia…

lunedì 3 dicembre 2012

ZUPPA D'ORTICHE


Zuppa d’ortiche
INGREDIENTI PER 4 PERSONE
400 g di ortica in foglie intere
60 g di burro
3 cucchiai di olio extravergine di oliva
1 cipolla media
1 l di brodo di pollo
2 cucchiai di farina
2,5 dl di panna liquida
40 g di parmigiano grattugiato
4 fette di pane casereccio
Sale e pepe
Preparazione
Sbollentate le foglie d’ortica per ½ minuto, quindi sgocciolate e tritatele finemente. Tritate anche la cipolla e fatela imbiondire in una casseruola con 30 g di burro; aggiungete le ortiche e cuocere a fuoco dolce finché non sono tenere. Unite la farina, amalgamandola alle ortiche, versare il brodo e portare a bollore, sempre mescolando. Salare, pepare, coprire e lasciare sobbollire per circa 20 minuto. Togliere dal fuoco e fate intiepidire.
Eliminate la crosta dalle fette di pane, taglie tele a dadini e friggetele nell’olio unito al burro rimasto. Quando saranno dorate, fatele asciugare su carta assorbente e tenetela in caldo.
In una ciotola mescolate la panna con il parmigiano e aggiungete un mestolo di minestra.
Versare il composto in una casseruola, rimettetela sul fuoco e scaldate lentamente facendo addensare la zuppa. Aggiustate eventualmente di sale e pepe, trasferite il contenuto in una zuppiera e servite immediatamente con i crostini di pane a parte.

giovedì 25 ottobre 2012

LINCOLN ABRAHAM


Potete ingannare tutti per qualche tempo e alcuni per tutto il tempo, ma non potete ingannare tutti per tutto il tempo.
Abraham Lincoln

(Hodgenville, Kentucky 1809 - Washington 1865), sedicesimo presidente degli Stati Uniti (1861-1865); contribuì alla vittoria degli unionisti nella guerra civile americana e fu uno degli artefici dell'abolizione della schiavitù.
Nato da una famiglia di pionieri, intraprese gli studi giuridici, guadagnandosi ben presto una solida reputazione per la sua onestà. Nel 1833 fu eletto deputato al Parlamento dell'Illinois, per il partito Whig. Ben presto divenne uno dei leader del partito e propose il trasferimento della capitale dello stato a Springfield, dove si stabilì nel 1837. Eletto al Congresso nel 1846, si oppose fermamente ma senza successo alla guerra con il Messico, e formulò un piano per una graduale emancipazione del District of Columbia. In materia di schiavitù, pur essendo un antischiavista convinto, non condivise mai appieno la posizione degli abolizionisti: ciò cui egli aspirava era soprattutto la prevenzione di un'ulteriore diffusione della schiavitù, ma era un fermo assertore del diritto dei singoli di gestire i propri affari interni.
Nel 1856 entrò nel Partito repubblicano e nel 1858 ne divenne il candidato al senato contro il democratico Douglas. Nel 1860 i repubblicani, ansiosi di attirare più fazioni politiche possibili all'interno del partito, lo designarono come candidato alla presidenza, proponendo un programma politico fondato sulla restrizione della schiavitù, i miglioramenti interni, la concessione delle terre ai privati e la riforma dei dazi doganali. Lincoln ottenne la maggioranza dei voti elettorali ed entrò alla Casa Bianca.
Subito dopo la vittoria, il South Carolina, seguito da altri sei stati del Sud, intraprese i primi passi per staccarsi dall'Unione. Lincoln si mostrò aperto al dialogo ma rifiutò di prendere in considerazione un'eventuale estensione della schiavitù. Il Crittenden Compromise, la soluzione di compromesso da lui proposta, non ottenne risultati favorevoli e nel febbraio del 1861 sette stati sudisti si separarono formalmente dall'Unione e costituirono la Confederazione degli Stati Uniti d'America.
Non volendo inimicarsi gli stati sudisti settentrionali, che non avevano ancora dichiarato la propria secessione, Lincoln si rifiutò di intraprendere un'azione drastica; tuttavia decise di liberare Fort Sumter assediato dai secessionisti, e informò il governatore della South Carolina della sua intenzione di inviare cibo alla guarnigione assediata. I confederati, che non avevano alcuna intenzione di sottostare a un'ulteriore "occupazione" federale del proprio territorio, aprirono il fuoco contro il forte, dando così inizio alla guerra civile. Quando il presidente rispose con l'invio di 75.000 volontari, ebbe il Nord dalla sua parte, mentre gli stati sudisti settentrionali dichiararono la secessione (vedi Guerra di secessione).
Nel corso del conflitto, che Lincoln riuscì a vincere affidando il comando dell'esercito al generale Grant, il problema dell'emancipazione non fu trascurato. Affiancandosi ora agli abolizionisti radicali, ora agli shiavisti conservatori, egli riuscì a mantenere buoni rapporti con i democratici e con gli stati al confine pur continuando ad adoperarsi nel suo tentativo di abolire definitivamente la schiavitù.
Il 22 luglio del 1862, sia in risposta alle richieste radicali, sia per esigenze diplomatiche, il presidente informò il gabinetto della sua intenzione di proclamare l'emancipazione, decisione che però non avrebbe riguardato gli stati al confine. La proclamazione avvenne tre mesi più tardi, il 22 settembre, dopo la battaglia di Antietam.
La proclamazione di emancipazione ufficiale, che avvenne il 1° gennaio 1863, liberò gli schiavi nelle regioni controllate dai ribelli e autorizzò la creazione di unità militari di colore. Lincoln, però, era determinato a porre l'emancipazione su una base permanente e nel 1864 propose l'introduzione di un emendamento contro la schiavitù all'interno della Costituzione americana. Tale emendamento venne accettato dopo la rielezione di Lincoln, quando il presidente stesso utilizzò tutti i suoi poteri per assicurarne l'approvazione alla Camera dei Rappresentanti (31 gennaio 1865).
Poche settimane dopo la sua seconda rielezione, Lincoln annunciò pubblicamente il suo sostegno al suffragio limitato dei neri in Louisiana. Tale aperta presa di posizione contro i conservatori non poté che rafforzare le cattive intenzioni di John Wilkes Booth, famoso attore che da tempo tramava contro il presidente. Preoccupato dall'eventualità che i neri potessero ottenere il diritto di voto, egli decise di portare a termine il suo piano e il 14 aprile del 1865 ferì mortalmente Lincoln nel teatro Ford di Washington.

martedì 23 ottobre 2012

SAUTE' AI DUE CARCIOFI

Ingredienti per 4
12 carciofi, il succo di un limone, 2 spicchi d’aglio,
un pezzetto di liquirizia di legno, il succo di un’arancia,
600 g di filetto di salmone, prezzemolo tritato,
olio extravergine d’oliva, sale, pepe.

Pulite i carciofi eliminando le punte e le foglie esterne più dure; tagliateli in quarti e togliete anche l’eventuale “fieno” interno.
Immergeteli in acqua acidulata con il succo di un limone perché non anneriscano.
Fate scaldare in un tegame due cucchiai d’olio con l’aglio non pelato leggermente schiacciato. Aggiungete metà carciofi sgocciolati, lasciateli insaporire nel condimento mescolando, poi salate, pepate, aggiungete la liquirizia e bagnate con il succo d’arancia.
Portate a bollore e fate cuocere coperto per 15 minuti, o finchè i carciofi sono diventati teneri. Scolate e asciugate i carciofi rimasti, tagliateli a fettine sottili e fateli saltare velocemente in una padella antiaderente con due cucchiai d’olio ben caldo, in modo che rastino croccanti. Salate e pepate.
Intanto togliete la pelle al salmone, eliminate le eventuali spine e tagliatelo in quattro parti. Fatelo dorare in una padella antiaderente ben calda, senza condimento, 3 minuti per parte; salate e pepate. Servite subito il pesce sautè con i carciofi all’arancia e il loro fondo di cottura e i carciofi in padella, spolverizzando con il prezzemolo tritato.

sabato 20 ottobre 2012

STORIA DEGLI ITALIANI IN AMERICA

Quando noi eravamo immigrati; nella lontana America. E’ “Pane amaro (bitter bread), un docu-film che rappresenta un “raro tributo alla storia degli italiani in America”. Realizzato dal giornalista e regista italoamericano Gianfranco Norelli e prodotto da Rai 3, sarà proiettato in esclusiva a Borgo San Lorenzo giovedì sera alle 21 al Teatro Giotto (ingresso 5 euro). L’iniziativa è organizzata nell’ambito della Festa della Toscana dai gestori di Villa Pecori Giraldi in collaborazione con Comune e Comunità Montana Mugello e il contributo di Banca del Mugello, Drogheria&Alimentari, Unicoop.
Il film documentario rievoca ed esamina alcuni fra gli eventi più drammatici e meno conosciuti nella storia di oltre cinque milioni di immigrati italiani negli Stati Uniti, arrivati fra il 1880 e la seconda guerra mondiale. Un racconto dell’avvincente epopea degli italiani d’America attraverso un accurato intreccio di rari filmati, foto d’epoca, documenti originali e interviste con storici e italoamericani la cui vita è stata profondamente influenzata dagli eventi narrati.
Il racconto di “Pane amaro” comincia alla fine dell’Ottocento, con l’arrivo di decine di migliaia di italiani nel sud agricolo degli Stati Uniti, dove rimpiazzano gli schiavi neri nelle piantagioni di cotone e di canna da zucchero. Nel 1906 sbarcano ad Ellis Island circa 980 italiani al giorno, in quell’anno ne arrivano 358mila. In una società basata sulla segregazione razziale, gli italiani vengono definiti “un popolo di mezzo”, né bianchi né neri, e sono soggetti a discriminazioni ed abusi. Un sospetto o una spiata, portano spesso non ad un processo e al carcere, ma alla giustizia sommaria del linciaggio. Gli opinionisti americani dipingono gli italiani come un’orda subumana e incontrollabile. Le loro condizioni di vita e di lavoro riflettono il loro status di cittadini di seconda categoria. Negli anni venti viene varata una legge che riduce l’immigrazione dall’Italia quasi a zero. In quella grande ondata d’immigrazione appena finita, è arrivata dall’Italia anche una vasta gamma di militanti politici rivoluzionari. La seconda parte di “Pane amaro” descrive il complesso arco dell’impegno sindacale ma anche della violenza politica di matrice italiana, esplora i retroscena dell’attentato del 1920 a Wall Street e il caso Sacco e Vanzetti, concludendosi con la vicenda dell’internamento di oltre 2.000 immigrati italiani durante la seconda guerra mondiale.

GIACOMO PUCCINI


"Piccole anime per grandi passioni", diceva Puccini, ovvero le storie di gente comune travolta da sentimenti, eventi, passioni eccezionali. Nato nel 1858, tre anni prima che si realizzasse il sogno dell'Unità d'Italia, sembra destinato a diventare Maestro di Cappella del Duomo di Lucca, come il padre. A 18 anni però assiste all'Aida di Verdi a Pisa e ha una folgorazione: decide che la sua strada sarà quella del teatro musicale, dell'opera. Diventerà l'erede di Giuseppe Verdi.

GAETANO DONIZETTI

Donizetti muore a Bergamo l'8 aprile 1848, quando iniziano i moti rivoluzionari. Secondo Giuseppe Mazzini, Donizetti è una bandiera del pensiero e dell'azione per l'unità d'Italia.

CAVOUR

Cavour, lo statista, l'uomo politico abile e spregiudicato che ci ha dato una Patria, il vero artefice dell'unità d'Italia. La sua storia umana e politica, una storia che si snoda attraverso le tappe fondamentali di un'Italia finalmente unita.
“Io non sono un Ministro qualunque!” Così Cavour risponde orgogliosamente a Vittorio Emanuele II che lo critica per la disinvoltura con ha ceduto Nizza e Savoia alla Francia. Se la frase non è vera è comunque verosimile e certamente in sintonia con il carattere dell’uomo. Ma chi è, realmente, Cavour? Un genio della politica animato da un grande ideale, il protagonista del Risorgimento, l’artefice dell’Unità d’Italia secondo i ricordi scolastici? Oppure, più semplicemente un uomo privo di scrupoli e di un piano organico che confida nel suo “genio dell’intrigo spinto fino all’eroismo”, come sostengono non pochi europei suoi contemporanei? Probabilmente l’uno e l’altro. L’uomo con le sue grandezze e le sue miserie, con le sue geniali intuizioni e le sue piccole meschinerie, con le sue astuzie e la sua grandiosa, stupefacente abilità.
La misura dell’opera compiuta da Cavour è data dal fatto stesso che egli muore a soli cinquant’anni. Nella vita del conte Camillo Benso di Cavour, la realizzazione più notevole è l’aver presieduto all’unificazione dell’Italia. Nel marzo 1861, appena qualche settimana prima della sua morte, viene infatti ufficialmente proclamata l’esistenza di un nuovo regno unitario, dopo molti secoli in cui la penisola italiana è divisa in numerosi Stati separati. Raccogliere insieme queste repubbliche, ducati e regni indipendenti è qualcosa che pochissimi prima del 1850 ritengono possibile.
Il principale interesse della biografia di Cavour consiste dunque nel decisivo contributo alla storia politica ed economica del suo tempo. Cavour è infatti un vero e proprio virtuoso delle molte arti che insieme formano un politico di successo. Più di qualunque altro, è lui a sviluppare il sistema parlamentare in Italia, tenendo a battesimo le tradizioni fondamentali che da allora in poi hanno retto il comportamento politico prima a Torino e poi a Roma. Durante i suoi ultimi anni è costretto a respingere l’assalto di nemici interni sia sulla destra che sulla sinistra. Non solo, ma sopravvive a numerosi tentativi del re Vittorio Emanuele di trovare un Presidente del Consiglio più docile ed obbediente. Alla sua destra stanno quei conservatori che vogliono mantenere l’Italia divisa; alla sua sinistra sono Garibaldi e Mazzini, la cui visione di una nazione unita è molto più radicale ed idealistica di quella cavouriana. Per riuscire nell’impresa contro questi avversari, Cavour deve seguire un sentiero arduo, e talvolta tortuoso, appoggiandosi alternativamente sulla destra e sulla sinistra, così da neutralizzarle entrambe, realizzando infine quell’operazione supremamente difficile e quasi paradossale che è una rivoluzione conservatrice.
L’abilità di Cavour tuttavia si può valutare tracciando non soltanto i successi ma anche le difficoltà, le incertezze, gli sbagli, nonché ciò che lui stesso chiama “la parte meno bella dell’opera”. Ma la capacità di porre rimedio agli errori e di sfruttare a proprio vantaggio condizioni avverse è un ingrediente essenziale della sua suprema arte di statista.

venerdì 19 ottobre 2012

ANTONIO MEUCCI



Nato in San Frediano, quartiere popolare di Firenze, il 13 aprile 1808 da Amatis Meucci e Maria Domenica Bebi, vive nello stesso quartiere in Via dei Serragli 44. Primo di 9 figli, studiò all'Accademia di Belle Arti del capoluogo toscano, lavorando in seguito come impiegato alla dogana e come tecnico di scena al Teatro della Pergola, dove conoscerà la futura moglie, Ester Mochi.
Francobollo del disegno di Nestore Corradi realizzato per Antonio Meucci nel 1858 e prova importante sugli studi sull'invenzione del telefono.
Coinvolto nei moti rivoluzionari del 1831, imprigionato a causa delle sue convinzioni politiche, Meucci fu costretto a lasciare il Granducato di Toscana e ad emigrare a Cuba, dove nel 1835 accettò un lavoro al Teatro Tecon dell'Avana. Successivamente, andato a fuoco il teatro e ritrovatosi senza lavoro, lasciò Cuba e si diresse verso gli Stati Uniti. Nel 1845 si trasferì dunque a Clifton, New York, dove aprì una fabbrica di candele. Lì accolse l'amico e fratello massone Giuseppe Garibaldi, che fra il 1850 ed il 1853 divenne suo collaboratore.
Attorno al 1854 Meucci costruì il "telettrofono", il primo prototipo di telefono, allo scopo di poter mettere in comunicazione il suo ufficio con la camera da letto dove la moglie era costretta da una grave malattia. Per questo esperimento, incaricò l'amico artista Nestore Corradi di disegnare uno schizzo che rappresentasse una delle prove principali della paternità dell'invenzione. L'invenzione del telefono prese spunto da un sistema precedente, che aveva creato quand lavorava a teatro: si trattava di un sistema di tubi che trasportava il suono da una parte all'altra del palco, in modo da poter impartire le istruzioni agli operai dalla cabina di regia.
Successivamente Meucci si trovò improvvisamente in difficoltà finanziarie, pur continuando a sviluppare la sua invenzione. Costretto a vivere con l'aiuto degli amici, si trovò a non avere denaro a sufficienza per brevettare la propria invenzione. Nel 1871 riuscì a fondare, assieme ad altri co-finanziatori italiani, la Telettrofono Company, riuscendo però ad ottenere per la sua invenzione solo un brevetto temporaneo da rinnovare ogni anno al prezzo di 10 dollari (e che sarebbe riuscito a rinnovare solo fino al 1873). Infatti, per ottenere un brevetto standard, erano necessari 287 dollari, circa 4.500 euro di oggi. Tuttavia, alcuni critici hanno messo in dubbio tale aspetto della vicenda, poiché Meucci fu in grado di brevettare altre invenzioni (non correlate al telefono) al costo di 35$ l'una negli anni 1872, 1873, 1875 e 1876. Meucci provò a proporre la sua invenzione ad una compagnia telegrafica di New York, ma le potenzialità dell'invenzione non furono intuite. Contemporaneamente, Alexander Graham Bell conduceva ricerche che lo portarono allo sviluppo del primo telefono elettrico. Nel marzo 1876 Bell poté depositare il brevetto per la sua invenzione, dopo che quello di Meucci era scaduto senza essere rinnovato. Alcuni sostengono che Bell abbia avuto modo di visionare i progetti di Meucci prima di brevettare la propria invenzione, ma mancano prove a sostegno di tale tesi. Successivamente Meucci gli intentò causa, ma, essendo in pieno dissesto economico, la perse. Secondo il giudice che emise la sentenza nel 1887, Meucci avrebbe infatti inventato un telefono meccanico, mentre quello oggetto del brevetto di Bell era elettrico. Nel giugno 2002 il Congresso degli Stati Uniti ha riconosciuto ufficialmente il contributo di Meucci nell'invenzione del telefono.

Targa a ricordo di Meucci, Palazzo delle Poste Centrali (Firenze)

Oltre al trasferimento elettrico della voce, Meucci inventò e brevettò molti altri strumenti basati su processi chimici e meccanici. Fu titolare e depositò ben 22 brevetti.
Per mancanza di soldi, non poté realizzare un brevetto standard per il suo telefono (il trasferimento elettrico della voce), ma fu costretto a presentare un brevetto non definitivo, denominato caveat, da rinnovare ogni anno al prezzo di 10 dollari. Per un brevetto definitivo gli furono chiesti 287 dollari, ma Meucci non riuscì a racimolarne più di 20.

REPUBBLICA ROMANA


La Repubblica romana del 1849 ha rappresentato uno degli episodi fondativi della vicenda storica nazionale e il regime politico più avanzato del Risorgimento italiano. Roma diventa il simbolo, la promessa di un’Italia libera, unita e democratica.
Dopo l’estate del 1848, mentre la rivoluzione si esauriva nell’Italia meridionale, una forte ripresa democratica aveva luogo nel resto del paese. In Toscana, dove l’idea mazziniana della Costituente italiana fu lanciata dal professore universitario e socialista moderato Giuseppe Montanelli, la pressione democratica, che era particolarmente forte nella città di Livorno, costrinse il granduca Leopoldo II a formare un nuovo governo capeggiato da Domenico Guerrazzi, letterato, anch’egli mazziniano, e dallo stesso Montanelli. A Roma, il 15 novembre fu ucciso il presidente del consiglio Pellegrino Rossi, un moderato che era stato ambasciatore di Luigi Filippo. Le agitazioni che seguirono, indussero il papa Pio IX ad abbandonare il suo Stato ed a rifugiarsi a Gaeta, dove fu raggiunto in seguito anche dal granduca di Toscana.
I democratici organizzarono allora l’elezione di una Assemblea costituente, che il 9 febbraio del 1849 proclamò la fine del potere temporale e l’istituzione della Repubblica. Il potere fu affidato ad un triumvirato composto da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini.
La costituzione romana era l’unica in Italia che prevedesse il suffragio universale; ed il triumvirato romano fu il solo governo italiano che avesse cercato, durante l’anno della rivoluzione, di venire incontro ai bisogni delle masse popolari delle campagne, con l’emanazione di un decreto che stabiliva la concessione ai contadini poveri delle terre espropriate agli enti ecclesiastici. Quest’ultimo provvedimento, adottato nel febbraio del ’49, avrebbe dato – se le circostanze ne avessero permessa la realizzazione – una scossa profonda alla struttura agraria arretrata e latifondista della campagna romana.
La breve esperienza della Repubblica Romana della primavera 1849 vide l’incontro fra le molte personalità del Risorgimento accorse da tutta la Penisola. In quei pochi mesi Roma passò dalla monarchia Papale e dall’arretratezza culturale ed economica ad una vivace e non facile sperimentazione di nuove idee democratiche e repubblicane, ispirate da Mazzini, che fu la mente più alta e l’animatore di quei mesi straordinari. La Repubblica fondava la propria costituzione scritta sul libero impegno civile, sulla pubblica azione politica, sui principi del suffragio universale maschile. I suoi capisaldi furono l’abolizione della pena di morte e la libertà di culto, la rinuncia ad una religione di Stato, la laicità delle istituzioni, il rispetto delle minoranze religiose e l’eguaglianza di fronte alla legge, l’inviolabilità del domicilio e il rispetto dei diritti dell’individuo. L’evento della Repubblica aprì dunque la lunga e difficile strada verso l’unificazione dell’Italia.

STORIA DELLA CITTA' PARTENOPEA






Le ORIGINI (VIII sec A.C. - III Sec D.C. )

Secondo la leggenda , la sirena Partenope , derisa dalle sue amiche, per non essere stata capace di sedurre Ulisse, si lanciò  in mare per affogare.
Il suo corpo fu portato dai flutti sull'isoletta di Megaride, dove poi sorse il castello di Lucullo oggi Castel dell'Ovo.
In quel punto sorse l'antica Partenope.
Nell'VIII secolo a.c. il litorale flegreo e le isole furono colonizzate da Greci ed Eubei Calcidesi, si insediarono prima a Cuma, per poi espandersi in tutte le terre del Golfo e sull'attuale collina di Pizzofalcone, sopra Santa Lucia, fondarono un piccolo centro abitato, chiamandolo: Partenope.
La funzione commerciale e culturale di questa antica colonia della Magna Grecia fu molto importante nell'Italia Meridionale
La zona era in continuo fermento per la concorrenza dei popoli confinanti
e soltanto dopo la vittoria dei Greci Siracusani sugli Etruschi a Cuma nel 474 A.C. il nucleo si spostò creando una nuova città, più nell'interno, l'attuale Spaccanapoli, sia per sicurezza che per favorire il commercio con l'entroterra. Fu chiamata Neapolis, o città nuova.
La precedente Partenope fu lasciata separata e rinominata Palepoli, cioè città vecchia.
I Sanniti, cominciarono a scendere a valle e dopo aver conquistato
varie località limitrofe alla città , nel 434 a.c. occuparono Cuma ed intrecciarono rapporti con i Napoletani e Neapolis divenne un attivo centro di scambio etnico culturale ed economico.
L'importanza strategica di Neapolis , non poteva sfuggire alla attenzione dei Romani e per sottrarla all'influenza Sannita, la conquistarono nel (326 A.C.) e Neapolis entrò nella sfera Romana.
Roma tuttavia riconobbe l'autonomia della città, la quale conservò i costumi e la lingua greca .
Durante la guerra civile fra Mario e Silla , la città parteggiò per il primo e Silla nel'82 a.c. la occupò per sterminarla.
Cesare detestava Neapolis, per aver essa dato aiuto al suo nemico Pompeo, Augusto invece la predilesse.
Per la dolcezza del clima e per il meraviglioso paesaggio, sorsero Ville grandiose non solo a Napoli ma anche a Cuma , Pozzuoli e nella zona di Posillipo dove vi sono resti di importanti costruzioni Romane.
Svetonio amava girare per le coste, Tiberio dimorò a Capri, Scipione l'Africano si costruì una Villa a Liternum.
Lucullo eresse un imponente Castello sull'isola di Megaride.
In quel Castello (oggi dell'Ovo ) , Odoacre , re dei Eruli, relegò l'ultimo Imperatore Romolo Augustolo.( 476 ).

DOMINAZIONE GOTICA E BIZANTINA (536-766 )
Dopo la fine dell'Impero d' Occidente , l'Imperatore d'Oriente Giustiniano inviò il generale Belisario a conquistare Napoli (536), ma questi cominciò con la Sicilia senza trovare resistenza , ma in Campania, trovò una opposizione accanita: infine riuscì ad avere la meglio ed abbandonò i suoi uomini al più spietato saccheggio e per le perdite subite
si vendicò crudelmente sulla popolazione.
Nel decennio dal 543 al 553 i Bizantini persero e riconquistarono la città, nel 543 non resistendo all'assedio dei Goti di Totila e nel 543 sconfiggendo Teja, ultimo Re dei Goti nella battaglia alle falde del Vesuvio.
Napoli fu assediata dai Longobardi nel 581 e nel 592: nel 599 fu rifugio di quanti dalle zone limitrofe vollero sfuggire ai conquistatori che si erano fortificati a Benevento.
In questo periodo il potere era nelle mani dei Vescovi ma quando i cittadini di Ravenna si ribellarono all'Esarca, Napoli fu spinta ad imitare questa iniziativa e si diede un governo autonomo con a capo un certo Giovanni Consino: per poco tempo, perché l'Imperatore d'Oriente nominò un nuovo Esarca, che riprese possesso delle due città ribelli.
Il DUCATO (661-1137 )
Nel 661 fu lo stesso imperatore a nominare un luogotenente imperiale con il titolo di " Duca", nella persona di Basilio.
Con l'istituzione di questa suprema carica , autonoma nell'esercizio delle sue funzioni , si favoriva lo sviluppo della città e si fronteggiava la minaccia Longobarda.
Il Ducato avrà una durata di 5 Secoli.
I duchi fornirono Napoli di un eccellente esercito, tanto che quando Cuma nel 647 fu conquistata dal longobardo Romoaldo II, duca di Benevento, il pontefice chiese aiuto ai napoletani e questi, con Giovanni I, riuscirono a liberare la località.
Nel 773 il duca Stefano II riconobbe l'autorità del papa e questi lo elesse Vescovo di Napoli , nel 840 Sergio I dichiarò ereditaria la successione ed il Ducato divenne autonomo "de jure et de facto"
Il ducato rimase formalmente alle dipendenze di Bisanzio, ma da allora saranno solo i napoletani ad eleggere i duchi.
Il ducato autonomo di Napoli ebbe sotto la sua giurisdizione Ischia, Procida, Baia, Miseno, Castellammare, Sorrento,il territorio Puteolano, l'agro Giuglianese ed Aversano e la zona Vesuviana, Capri faceva parte del Ducato di Amalfi.
Questo fu uno dei periodi più felici della storia napoletana..
Molti furono gli eventi bellici che costellarono il periodo Ducale: scontri con i Longobardi, che intendevano ampliare il Principato di Benevento con la conquista di Napoli e Salerno
(822-836); conflitti con i Saraceni la cui minaccia si fece sentire nell' 812;
Per tre secoli , tra gli interessi contrastanti dei Longobardi, Franchi, Bizantini e Saraceni, Napoli si mantenne libera ed indipendente grazie ad un gioco di alleanze talvolta di uno contro gli altri, non escludendo anche i Saraceni e suscitando le ire dei Pontefici.
PERIODO NORMANNO (1137- 1194)
Sergio IV, Duca di Napoli (1002-1027/1030-1036) donando al Normanno Rainulfo Drengot la piccola borgata di Aversa poneva la prima pietra della nuova signoria, che avrebbe a poco unificato tutto il Mezzogiorno.
I Normanni provenienti dal Nord (North-Man) abili navigatori dopo diverse scorrerie risalendo la Senna in Francia , occuparono la regione Nord Occidentale che prese il nome di Normandia.
Da questa terra gruppi di guerrieri si avventurarono nel Mediterraneo offrendo il braccio mercenario a chiunque lo richiedesse.
Nel 1029 Pandolfo IV Signore Longobardo di Capua, conquistò Napoli e mise in fuga il Duca Sergio IV, il quale rifugiatosi a Gaeta incontrò Rainulfo Drengot , contratto' l'aiuto e riconquistò la Città.
I
l compenso fu il feudo di Aversa con il titolo di Conte.
Aversa sarà il centro della espansione Normanna ed in particolar modo si affermò la famiglia degli Altavilla (Hauteville).
L' agonizzante Ducato di Napoli , governato dal Duca Sergio VII
(1120-1137) viene dopo un lungo assedio, definitivamente conquistata da Ruggero II di Altavilla già incoronato Re di Sicilia (1130).
Ruggero forte della bolla (Honor Neapolis) dell'Antipapa Anacleto II, invita Sergio ad arrendersi. I napoletani resistono per due anni chiedendo aiuto a Rainulfo d'Alise ma poi sconfitti in Capitanata, si sottomisero a Ruggero. Generoso con i vinti affidò ad Anfuso suo figlio il governo della città e venne a Napoli nel 1140 , accolto con solenni onori.
I Normanni, dal latino medievale northmanni=uomini del nord.
Si tratta di una popolazione prevalentemente marinara e guerriera, stanziata lungo le coste della Scandinavia. Originariamente designati con il nome di Vichinghi (forse guerrieri) compirono varie invasioni e scorrerie in Europa a partire dall'VIII sec. e si spinsero, verso l'Islanda, il Labrador, e le steppe della Russia. Le scorrerie in Europa occidentale si protrassero per tutto il IX sec., fin quando alcuni gruppi di normanni si stabilirono definitivamente nella Francia nordoccidentale, la Normandia, appunto.
Dal re di Francia, il normanno Rollone ottenne il riconoscimento dei feudi, e il titolo di duca. In seguito varie ribellioni, spesso appoggiate dal re dei franchi, portarono all'esodo forzoso della piccola nobiltà.
Dopo il Mille, attraverso la via Francigena, sia nelle vesti di pellegrini diretti verso i luoghi santi della cristianità, sia nelle vesti di mercenari pronti a combattere per un pezzo di terra, i normanni giunsero a gruppi nell'Italia meridionale. Fu facile, per loro, inserirsi nelle lotte interne di Longobardi e Bizantini, ottenendo ben presto terre e benefici.
Rainulfo Drengot, nel 1028, ottenne la Contea d'Aversa, stabilendo così, fra Capua e Napoli, una testa di ponte per il fortunato insediamento normanno. Presto, con i successi militari contro i bizantini in Puglia, i longobardi in Campania, e le forze pontificie, i capi normanni si divisero tra loro le precedenti contee.
Nel 1059, Roberto d'Altavilla, detto il Guiscardo ottenne dal papa il ducato di Puglia e Calabria, e Riccardo Quarrel il principato di Capua. Alla fine del secolo Ruggero d'Altavilla, fratello del Guiscardo portò a compimento la liberazione della Sicilia dagli arabi. All'inizio del XII secolo, l'Italia meridionale era frammentata in una serie di ministati retti da principi, duchi e conti: Ducato di Puglia con capitale Salerno, Principato di Capua, Principato di Taranto, Contea di Sicilia, Contea di Montesantangelo, Contea di Conza, Contea di Principato, Contea di Ariano, Contea di Loritello, Contea di Alife, Contea di Boiano, indipendenti erano città come Bari, ed altri baroni si atteggiavano ad una piu'accentuata indipendenza.
La tendenza del Baronaggio a rendersi indipendente dal Potere Regio sarà una costante che accompagnerà tutta la Storia del Mezzogiorno.
Nel 1127, il Conte di Sicilia, e signore della Calabria, Ruggero II, prese il controllo del ducato di Puglia. Nel 1130, dall'antipapa Anacleto II, ebbe l'investitura del Regno di Sicilia. Ma le lotte fra i baroni e le città di Campania e Puglia, ed il re normanno, si protrassero fino al 1139 quando ebbe finalmente il pieno dominio dell'Italia del Sud.
Ruggero II (1139-1154) e il primo Re di "Napoli" riunendo il Ducato al Regno di Sicilia. Re di Sicilia di là e di qua' del Faro; si adoperò per fondere gli elementi etnici che popolavano il Regno : romani, greci,bizantini ,longobardi ,normanni e saraceni per garantire la stabilità del Regno.
Intervenne a Napoli con la sua Autorità per dirimere il dissidio tra Nobili e Mediani sulle cariche amministrative della Città fino allora pretese dai Nobili come esclusivo privilegio.
Il commercio fu fiorente profittando del declino di Amalfi.
La Chiesa Napoletana fino ad allora prevalentemente Bizantina con l'avvento della Istituzione Monarchica Normanna cominciò la sua Latinizzazione,vi furono conflitti dottrinali e teologici tra "romani" e "bizantini'' , ma i rituali erano molto simili.
Nel 1140 da Ariano Irpino Ruggero promulgò le "assise del regno" con l'Istituzione di Baliaggi e Giustizieri , ed emanando leggi e decreti per l'Organizzazione provinciale del Regno, restarono in piedi tuttavia , alcune delle precedenti strutture feudali.
I figli prediletti del re, quelli che avevano ricevuto l'investitura, morirono uno dopo l'altro, e fu uno degli ultimi, Guglielmo I il Malo (1154-1166), a ricevere l'eredità del padre nel 1154, subito si trovò a fronteggiare le ribellioni nel Sud, che continuarono sporadicamente fino al regno di Guglielmo II il Buono (1166-1189), suo figlio.
In questo periodo la monarchia normanna si estese dall'Abruzzo all'isola.
Il Regno di Guglielmo I detto il Malo , per la sua avarizia , si distinse per le forti rappresaglie contro i baroni ribelli e per la pace con l'Imperatore di Bisanzio Manuelo I Comneno in cui riottenne le città pugliesi , in cambio di alcune conquistate in Asia Minore dal Padre e per la erezione di Castel Capuano a Napoli dove si apriva la porta che portava a Capua.
Guglielmo II detto il Buono non ebbe la tempra del padre e per questo probabilmente fu chiamato il ''Buono" , sposò la figlia di Enrico II d'Inghilterra Giovanna Plantagenete nel 1176 .Durante il suo regno per evitare la minaccia della invasione di Federico Barbarossa
acconsentì al matrimonio della figlia postuma di Ruggero II Costanza con Enrico di Svevia.
Nel 1189 alla morte di Guglielmo , reclamarono il Regno di Sicilia tre pretendenti :
Tancredi Conte di Lecce ,figlio naturale di Ruggero Duca delle Puglie , primogenito di Ruggero II ; Riccardo Cuor di Leone fratello di Giovanna Plantageneta Regina Vedova ed infine Enrico di Svevia.
Il papa Clemente III temendo l'unione con l'Impero ed al soffocamento dello Stato della Chiesa favorì Tancredi ( 1189-1194) il quale per fronteggiare il potente rivale , tacitò Riccardo d' Inghilterra con denaro ed ottenne il favore dei Baroni e delle Città prodigando concessioni e privilegi.
I sudditi ricambiarono e resistettero all'assedio a Napoli nel 1191 delle schiere di Enrico di Svevia.
Tancredi morì nel dicembre 1194 e lasciò il figlio Guglielmo III di otto anni sotto tutela della Regina Sibilla di Acerra.
Enrico VI allestì una nuova spedizione con l'ausilio di Pisani e Genovesi ed espugnò Napoli , commettendo atrocità e crudeltà.
Nel 1194, l'imperatore Svevo Enrico VI di Hohenstaufen, in ragione del suo matrimonio con Costanza di Altavilla, unì la corona imperiale a quella di Sicilia. Quello stesso anno, vedeva la luce un bambino che avrebbe fatto molto parlare di se: Federico II.

L' Impero nel 1152 al tempo di Federico Barbarossa

PERIODO degli HOHENSTAUFEN (1194-1266)
PERIODO degli ANGIOINI (1266-1442)
Dalla contea dell'Angiò, presero il nome quattro case feudali. Nel 1234 la contea fu assegnata da Luigi IX al fratello Carlo e quando questi invase l'Italia meridionale diede origine agli Angioini di Napoli e di Sicilia che risollevarono le sorti del partito guelfo e si fecero protagonisti delle vicende politiche dell'Italia meridionale nei secoli XIII, XIV e parte del XV.
Carlo I d'Angiò (1282-1285), figlio di Luigi VIII di Francia e di Bianca di Castiglia fu invitato nell'Italia meridionale dal pontefice in lotta con gli Svevi (1263). Avendoli battuti a Benevento (1266) e a Tagliacozzo (1268), divenne signore di Napoli e della Sicilia. Coraggioso, energico e perseverante, ma soprattutto ambizioso, praticò una dispendiosa politica espansionistica che appesantì il carico fiscale e provocò il moto dei Vespri Siciliani (1282) e la secessione dell'isola che si diede agli Aragonesi.
Carlo II, lo Zoppo (1285-1309), figlio di Carlo I gli successe nel 1285 ma, prigioniero degli Aragonesi dal 1284, fu liberato nel 1288 ed incoronato re di Sicilia nel 1289. Condusse una lunga guerra con gli Aragonesi ai quali non riuscì mai a togliere la Sicilia.
Roberto I (1309 - 1343), figlio di Carlo II, passò parte della giovinezza in Aragona, come ostaggio; liberato collaborò col padre nella guerra del Vespro fino alla pace di Caltabellotta (1302). Divenuto re si sforzò, senza gran successo, di riordinare il regno, dove i baroni detenevano un forte potere con importanti possedimenti feudali e contribuì a dare splendore, anche artistico e letterario, alla corte.
Morto senza eredi diretti, lasciò il trono alla nipote Giovanna.
Giovanna I fu il primo sovrano(1343-1381) veramente napoletano a guidare il Regno e coincise con un grave decadimento del Regno nel quale le fratture tra le fazioni si facevano sempre più acute e resero sempre più debole il prestigio della corona.
Di Giovanna I la tradizione ha tramandato una figura per molti aspetti contraddittoria. Il suo regno fu un'epoca caratterizzata da vicende poco chiare, da complotti di corte culminati in vere e proprie esecuzioni, da scontri violenti tra le fazioni in lotta.
Carlo III di Durazzo ( 1381-1386) re di Ungheria organizzò una spedizione nell'Italia meridionale e, fatta prigioniera la sovrana, la fece soffocare da quattro sicari il 27 luglio del 1382. L'omicidio della regina e la successione di Carlo III segnano la fine della casata e dell'entità politica creata dal primo Angiò.
Carlo III di Angio - Durazzo,detto il Piccolo, figlio di Luigi conte di Gravina, si impossessò del regno di Napoli (1381) dopo aver fatto imprigionare e morire Giovanna I nel 1382; passato in Ungheria per assumervi la corona, fu assassinato nel 1386.
Luigi I d'Anjou , figlio di Giovanni Re di Francia , competitore di Carlo III di Durazzo e' il Re Titolare per breve tempo (1382-1384).
Luigi II d'Anjou , figlio di Luigi I , re titolare di Napoli ( 1386-1400) entra nella città il 14 Luglio 1386
Ladislao I d'Angiò-Durazzo (1400-1414), figlio di Carlo III, nel periodo della reggenza della madre Margherita (fino al 1400) fu contrastato dal rivale Luigi II d'Angiò, sul quale infine prevalse. Profittando del disordine provocato negli Stati della Chiesa dallo scisma d'Occidente, vi impose la sua supremazia, occupando Roma stessa (1413) e minacciando l'indipendenza di Siena, Bologna e Firenze.
Questa ultima città arrestò la sua espansione, che mirava a ridare al Regno di Napoli la posizione preponderante dei tempi di re Roberto, e gli impose un severo trattato (Assisi 1414), che fu l'ultimo atto politico del valoroso sovrano.
Il 6 agosto del 1414 Ladislao fu colto da una malattia che si trascinava fin dall'infanzia, aggravata dalle fatiche delle continue guerre e dai facili amori con le numerose cortigiane che affollavano i suoi palazzi.
Giovanna II d'Anjou - Durazzo (1414-1485) sorella di Ladislao ,
cresciuta all'ombra dell'energico sovrano, ereditava una terra di conquista verso la quale avventurieri, re e papi volgevano i passi e le aspirazioni.
Giovanna II fu incoronata nel 1419 e si trovò assediata per mare e per terra e fu costretta a chiamare in suo soccorso il re di Aragona, Alfonso V, promettendogli la successione del Regno e fino al 1443 vi furono numerosi scontri tra Renato d'Angiò ed Alfonso V.

Genealogia Casa Angiò - Napoli

Periodo degli Aragonesi (1443-1495)

Dalla contea di Aragona presero il nome quattro casate d'Aragona dall'ultima delle quali deriva il ramo degli Aragonesi di Napoli.
Alfonso V detto il Magnanimo (1442-1458) oltre che re d'Aragona, fu re di Valenza, di Sardegna e di Sicilia e, dal 1442 col nome di Alfonso I, di Napoli.
Si dedicò alla politica italiana, protesse la cultura, ma impose gravi tasse, leggi e costumi spagnoli alle popolazioni.
Alfonso conservò strutture politiche e amministrative proprie del Regno di Napoli e l'inserimento nel contesto mediterraneo , migliorò la rete di relazioni esistente fra gli Stati italiani dell'epoca, dando al Regno un rilievo maggiore.
Alfonso riconobbe il vassallaggio del Regno alla Santa Sede ed ottenne da Eugenio lV (1440-1447) l'investitura e il diritto alla successione per il figlio naturale Ferrante.
In politica interna mirò al rinnovamento delle strutture statali incidendo sulla nuova configurazione di Napoli come sede regia, Napoli avrebbe mantenuto il ruolo di capitale del Mezzogiorno ed assunto la funzione di centro politico di tutto l'impero aragonese.
A Napoli fu stabilita la Cancelleria generale (unica per tutta la Corona d'Aragona), ma i principali funzionari furono aragonesi; la Suprema corte di appello divenne il Sacro Regio Consiglio ed aveva il compito di giudicare in seconda istanza tutte le cause nonché le cause della Camera della Sommaria.
Gli uffici addetti alle materie finanziarie e contabili furono curati con particolare attenzione.
Vanno ascritti a suo merito : i restauri degli acquedotti , la bonifica delle zone paludose , la pavimentazione di strade , la riattivazione dell'Arsenale ed il completo rifacimento di Castelnuovo con l'abbellimento del famoso Arco di Trionfo.
L'ingresso del Mezzogiorno nell'area economica catalano-aragonese ruppe il tradizionale inserimento dei porti meridionali nel quadro della navigazione e del traffico mercantile genovese.
Alla sua morte avvenuta il 27 giugno 1458 a Castel dell'Ovo
Lasciò la Sardegna ,la Sicilia e l'Aragona al fratello Giovanni e al figlio naturale Ferrante il Regno di Napoli.
Ferrante I (1458-1494) detto il Bastardo : subito dopo l'incoronazione in Calabria scoppiò una rivolta animata dal marchese di Crotone Antonio Centelles, alla quale si unirono altri importanti signori, quali Antonio Caldora, Giosia Acquaviva, il cognato di Ferrante Marino Marzano principe di Rossano e duca di Sessa e Giovanni Antonio del Balzo Orsini principe di Taranto.
Prese avvio così la prima congiura dei baroni che sconvolse il Paese per ben cinque anni. Superata la crisi, il re si sforzò negli anni successivi di conservare la pace e di stringere alleanze e legami di parentela.
Il regno di Ferrante fu ancora travagliato dalla grande Congiura dei Baroni (1485-87).
Alla congiura parteciparono i maggiori membri della famiglia Sanseverino e cioè il principe di Salerno Antonello, che ne fu l'ispiratore, il gran Camerlengo e principe di Bisignano Girolamo, Barnaba conte di Lauria, Carlo conte di Mileto, Guglielmo conte di Capaccio, la contessa Giovanna e il conte di Tursi e a questi si aggiunsero altri esponenti della grande feudalità, il gran Connestabile Pirro del Balzo, principe di Altamura, Pietro de Guevara, gran Siniscalco e marchese del Vasto, Angliberto del Balzo duca di Nardò e conte di Ugento, il duca di Melfi Giovanni Caracciolo, Andrea Matteo Acquaviva, e numerosi altri.
Pricipali attori furono Francesco Coppola, il celebre conte di Sarno, mercante ricchissimo originario di Scala e Antonello Petrucci, segretario del re, con i figli Francesco, conte di Carinola e Giovanni Antonio, conte di Policastro.
Riuniti a Melfi nel corso dell'estate, in occasione delle nozze di Troiano Caracciolo, alcuni baroni furono immediatamente imprigionati, e tra essi i figli del conte di Nola, Orso Orsini.
Il 30 settembre a Miglionico si stipulò una pace aperta alle richieste baronali. Alla pace si arrivò l'11 agosto '86, riconosciuta dai baroni il 26 di dicembre. Però il Coppola e i Petrucci furono condannati e giustiziati, ed i loro beni confiscati. Dal gennaio prese avvio una feroce reazione: i principali congiurati furono arrestati durante una giostra e giustiziati dopo discutibili processi.
Successivamente la monarchia poté godere di un periodo di tranquillità, ma i baroni esuli in Francia premevano sul re Carlo VIII per una spedizione nel Mezzogiorno. Mentre Ferrante si preparava alla difesa , la morte lo colse il 25 gennaio 1494.
Alfonso II (1494), successe al padre senza difficoltà ma con la calata dei francesi di Carlo VIII , Alfonso II, in presenza dei grandi del Regno, abdicò in favore del figlio Ferrandino , e poi, rifugiatosi a Messina, si spense il 18 dicembre 1494.
Ferrante ll (1495-1496), detto Ferrandino dopo gli ultimi tentativi di arginare l'avanzata nemica, si ritirò in Napoli.
Infine al giovane re non rimase che partire per Messina lasciando la capitale alle truppe di Carlo Vlll.
Ferrandino con l'aiuto di Ferdinando il Cattolico risalì il Regno e fu accolto trionfalmente in Napoli. Ma la guerra per la riconquista non era del tutto completata, quando il giovane e coraggioso sovrano, sopraffatto dalle febbri, morì il 7 ottobre del 1496.
Federico zio del defunto sovrano Fernandino e figlio di Ferdinando I detto il Bastardo dovette combattere ancora una volta per riportare alla fedeltà i baroni ribelli, e il 17 dicembre 1497 sconfisse il principe di Salerno Antonello Sanseverino a Diano (I'odierna Teggiano) e gli concesse di imbarcarsi con i suoi a Trani per proseguire alla volta di Francia.
Tornò a Napoli il 16 febbraio del '98 atteso dalla consorte Isabella del Balzo, figlia di Pirro principe di Altamura, ma l'accordo segreto di Granata (11 novembre 1500) stabilì la spartizione del Regno tra Francesi e Spagnoli, e la fine della sua autonomia. Federico, dichiarato decaduto dal pontefice
Alessandro VI (1492-1503) ,si rifugiò a Ischia, da dove partì esule in Francia accompagnato dall'amico Jacopo Sannazaro e si spense il 9 novembre 1504.