mercoledì 15 agosto 2012

MULINO DI BELFIORE

IL MUSEO ETNOGRAFICO NEL MULINO DI BELFIORE
La mietitura
La mietitura rappresenta il momento culminante dell’annata agraria quando finisce l’attesa timorosa e trepidante dei mesi autunnali e invernali e si possono cogliere i frutti di una serie di atti lavorativi meticolosamente compiuti nel terreno, confidando nella buona sorte e nelle condizioni meteorologiche favorevoli, è il passaggio del periodo “vuoto” invernale a quello “pieno” dell’estate.
La mietitura, in passato, assumeva un rilievo tutto particolare nelle civiltà cerealicole dell’uso dell’aratro e della falce messoria. La mietitura a mano richiedeva un notevole numero di lavoratori, i piccoli proprietari si aiutavano a vicenda, mentre i grandi latifondi assumevano molti braccianti, spesso avventizi, provenienti da zone lontane dei campi in cui normalmente lavoravano.
Varie fasi della raccolta.
Nel XIX secolo esistevano delle campagne formate da 50 mietitori guidati da un capo, l’anteniere che si preoccupava di stipulare i contratti e riscuotere i pagamenti sottoforma di salario o di beni di prima necessità.
Nelle zone del Veneto vi erano delle squadre formate dai 5 ai 7 mietitori e 1 o 2 legatori.
I  mietitori agivano seguendo movimenti precisi e ripetitivi con ritmi regolari e scanditi dal movimento del sole.
Il corredo era composto da una falce, da un grembiule in cuoio, e, per proteggersi da eventuali colpi di falce, al polso sinistro s’indossava un bracciale in cuoio e tre pezzi di canna  infilati nelle dita della stessa mano.
Il grano veniva tagliato a diverse altezze, secondo l’uso che si faceva della paglia.
I falciatori avanzavano ad una distanza di un metro l’uno dall’altro ed occupavano una fascia di terreno larga 3 metri circa, in modo da segnare il campo in linea obliqua.
Dietro c’era il legatore che faceva i mannelli (manuini) per accostarli poi nei covoni. Il lavoro del legatore era molto faticoso e richiedeva notevole specializzazione, tanto che era pagato più degli altri. Spesso era lo stesso proprietario che svolgeva tale funzione.
Era tradizione preparare delle cerimonie per il taglio dell’ultimo covone, nel quale si credeva albergasse lo spirito del grano. Molte di queste cerimonie si trasformavano in veri e propri riti magico-propiziatori.
Situato sulla riva destra del Loncon, l’edificio adibito a mulino presenta un impianto planimetrico è a forma di “L”, con la grande sala macine al piano terra. Tra il primo e il secondo piano si distribuiscono altre quattro stanze. Si ipotizza che in origine il mulino fosse composto di un solo piano e che l’attuale ingresso principale sia una successiva aggiunta.
Fin agli anni Trenta, epoca in cui cessò la sua attività, l’opificio era dotato di tre ruote a pala. Tuttavia nella struttura muraria sono leggibili cinque fori, che ospitavano l’albero di trasmissione delle ruote, una delle quali era utilizzata per il funzionamento  del brillatoio di orzo.
La sala macine presenta il pavimento in discesa, forse per agevolare il trasporto dei sacchi, ma probabilmente anche per far defluire le acque in caso di allagamento.
La documentazione finora acquisita sulle vicende storiche del mulino è piuttosto carente e non consente di delinearne l’attività nel corso del tempo, tuttavia la lettura del tessuto murario e di altre parti del mulino evidenzia stratificazioni secolari. Numerose le riutilizzazioni di elementi lapidei provenienti da demolizioni di edifici più antichi, o di mattonelle ricavate da vere da pozzo e dai cornicioni della villa. Interessante è anche lo stemma araldico inciso nel legno di uno dei pali di sostegno del piano delle macine, probabilmente risalente al XVII secolo e riferito alla famiglia Grimani.
I carri (banèe) trainati dai buoi, carichi di granaglie entravano dal retro della villa. Spesso venivano da lontano e i tempi di attesa per la macinazione erano lunghi, così pernottavano nella Caste’la, dove fino della prima guerra mondiale, c’era l’osteria dei Zambon, luogo di sosta e di ristoro anche per i contadini del paese.
Una passerella di legno (pianca) metteva in comunicazione il mulino con l’altra sponda del Loncon, dove si trovava un casòn. Negli anni ’60 del Novecento l’intera proprietà dei Dalla Pasqua fu ereditata da un esponente della famiglia Venier, il quale nel 1900 la cedette al Comune di Pramaggiore.   
Belfiore, Stagnimbecco e Comugne Larga sono tre insediamenti contigui che, all’apparenza, sembrano costituire un’unica borgata. In realtà presentano ciascuno una configurazione specifica che si lega anche a vicende storiche diverse. Il significato del toponimo Belfiore è piuttosto trasparente, tuttavia è curiosa la credenza popolare sulla sua origine e su quella del vicino Stagnimbecco. Si racconta infatti che Napoleone si fosse fermato a dormire nella Villa Dalla Pasqua prima di recarsi a Campoformido. Quando si svegliò la mattina, vedendo la bellezza del giardino e del bosco esclamò: “Qui è tutto un bel fiore”. Da allora quello fu il nome dell’insediamento, in precedenza chiamato Stagnimbecco.
Belfiore, frazione del comune di Pramaggiore, si caratterizza per una struttura a corte chiusa, di tipo difensivo, con la casa padronale, il mulino e gli annessi rustici.       
Di particolare interesse è un edificio a planimetria poligonale con la cornice in mattoni di sottogronda, chiamato la Caste’la, di stile medievaleggiante. È presumibile che l’insediamento originario risalga al XIV secolo.
La casa padronale, villa Dalla Pasqua, dal cognome degli ultimi proprietari, è un palazzo a pianta rettangolare, piuttosto massiccio, probabilmente del secolo XVII. Ha la tipica pianta delle ville venete, con sala centrale passante, scala ottagonale e stanze ai lati. L’edificio ha subito numerose trasformazioni, tra le quali la più evidente è l’aggiunta di un terrazzo con scala agli inizi del ‘900.
Il complesso è circondato da un vasto parco, che fino a pochi anni fa conteneva numerose specie di piante ed alberi, sia autoctone che esotiche. Tra queste sono da segnalare alcune piante di gelso, la cui presenza si legava all’allevamento dei bachi da seta nel vasto spazio del sottotetto della villa.
Le trasformazioni socio-economiche di questi ultimi decenni, anche nel settore agricolo, con il passaggio alla viticoltura intensiva, hanno inevitabilmente comportato un progressivo abbandono degli opifici a forza idraulica presenti lungo le rive del Loncon.
Oltre al mulino di Belfiore, sono ancora visibili, anche se non più funzionanti, il mulino di Salvarolo, il mulino di Blessaglia e il mulino di Molin di Mezzo.  
Il museo etnografico
Belfiore, un nome benaugurante, è associato alla memoria collettiva della zona e di quelle limitrofe, alla presenza del mulino e di una villa padronale con un ampio parco.
Per chi ha vissuto in queste pianure negli anni in cui l’agricoltura era ancora fortemente legate a tecniche e conoscenze tradizionali, il ricordo del mulino di Belfiore va a pari passo il ritmare cadenzato delle ruote mosse dall’acqua, con il cigolio lento che si sentiva anche da lontano, con il movimento dei carri carichi di granoturco e frumento, con l’immagine del mugnaio sporco di farina, con la pesca delle anguille nei canali adiacenti all’opificio. È un insieme di immagini, di suoni, di odori, di sensazioni, di relazioni sociali ed economiche che non è facile restituire attraverso un percorso museale. Il mulino era uno dei punti di arrivo di un intero ciclo di lavoro che impegnava, mezzadri, fittavoli, braccianti, piccoli proprietari e costituiva una tappa obbligata per la trasformazione di alcuni prodotti agricoli basilari nell’alimentazione. La decisione del comune di Pramaggiore di restaurare il complesso di Belfiore e di trasformare il mulino in un museo ha un duplice obiettivo: da un lato salvaguardare dalla distruzione un opificio a forza idraulica di grande interesse, evidenziandone le caratteristiche e le modalità di funzionamento, dall’altro restituire il complesso di relazioni fra il mulino, la comunità a cui faceva riferimento e le campagne circostanti, riservando particolare attenzione ai cicli agricoli legati alla cerealicoltura. Il percorso si basa sull’esposizione di immagini e di oggetti comuni fino a qualche anno fa e a cui oggi la maggior parte della gente fatica a riconoscere la funzione. Sono strumenti che parlano ed evocano ricordi solo a chi ha vissuto e lavorato nelle campagne negli anni precedenti alla meccanizzazione. Non sono reperti archeologici o pezzi unici di valore artistico, ma oggetti che rimandano a un contesto culturale specifico, a tecniche, a saperi, a modelli sociali ed economici ormai abbandonati.
Le informazioni, ricavate attraverso la ricerca sul terreno, hanno lo scopo di restituire, per quanto possibile, tale contesto, con riferimento ad un arco temporale che va dagli inizi del ‘900 agli anni ’60.
Ci auguriamo che la visita al museo diventi un’occasione per riflettere sulla diversità tra passato e presente, aiutandoci a pensare ad un futuro migliore.
Il mulino di Belfiore, sito nella località omonima, appartiene al comune di Pramaggiore, il cui territorio costituito da una pianura alluvionale, presenta un declivio dolcissimo verso la laguna. Questo lieve dislivello ha costituito nei secoli una barriera naturale alle esondazioni del Livenza, favorendo il deflusso delle acque di piena verso la palude delle Sette Sorelle (San Stino di Livenza). Essendo questa zona geografica delimitata a Nord della linea delle risorgive, gode dei benefici dei numerosi corsi d’acqua di risorgiva che l’attraversano, tra cui il Loncon. Sulle sue rive sorsero nel corso dei secoli numerosi mulini, tra i quali Belfiore. Il sito è fertile, limo – argilloso, misto a poche sabbie fini e a qualche strato torboso, adatto pertanto all’agricoltura, anche se nella cartografia ottocentesca sono ancora visibili nella zona a sud-ovest di Belfiore ampie porzioni di bosco. Oggi la coltivazione intensiva del granoturco e del frumento, unitamente alla coltura della vite e alla produzione dei rinomati vini locali, costituisce una voce importante dell’economia della zona.   
L’assetto insediativo rifletteva lo stretto rapporto con la terra e i diversi regimi di proprietà e di costruzione della stessa. Piccoli nuclei frazionali o borgate di stampo prettamente agricolo e case sparse caratterizzavano le modalità dell’abitare.
Le case rurali a loro volta erano strutturate sulla base delle esigenze della famiglia contadina: dal casòn, col tetto coperto di strame o di cannella di palude con due tre vani per la famiglia bracciantile, al casone più complesso dotato di pòrtego e di granèr nella piccola azienda a conduzione diretta o tramite affittuari, fino alla casa con elementi giustapposti (abitazione, stalla-fienile), pòrtego e granaio nel sottotetto, adibito anche all’allevamento del baco da seta), presente nella aziende di media estensione, talvolta condotte a mezzadria. 
Nel comune di Pramaggiore che ha un’estensione di 24,21 kmq, abitano attualmente 3995 persone (censimento 2001), quasi il doppio di quelle residenti nell’area nel 1871. Se le attività industriali occupano più o meno la metà della popolazione attiva, fino al secondo dopoguerra la base dell’economia era costituita dall’agricoltura. Mezzadri, fittavoli, piccoli proprietari, braccianti condividevano un destino comune: quello di ricavare dalla terra il necessario per vivere.
La vita era dai cicli agricoli, con un rallentamento dei ritmi lavorativi durante l’inverno. Per mezzadri e fittavoli il momento peggiore era alla fine dell’anno lavorativo. A San Martino, quando chi aveva ricevuto la disdetta doveva lasciare il fondo, dopo aver fatto gli ultimi lavori. Nei mesi invernali la pioggia e la neve costringevano la popolazione rurale a trascorrere molte ore nelle stalle, riscaldate dalla presenza degli animali, dove si effettuavano lavori di riparazione o di costruzione di attrezzi agricoli, filatura e rammendo.    
L’indebitamento con i proprietari aggrava una miseria ormai endemica, che spinse molte persone a cercare altrove migliori condizioni di vita. L’emigrazione all’interno e all’estero costituisce pertanto una costante nella vita delle popolazioni di questa zona, almeno a partire dalla seconda metà dell’800.
Accanto ai flussi stagionali verso Aquileia, Venezia e Trieste e le isole, legate a specifiche attività (ortolani, facchini, muratori, falegnami), a fine secolo XIX inizia l’emigrazione transoceanica (Brasile e poi Argentina) e quindi verso gli altri paesi europei.    
Il Loncon è un fiume di risorgiva, dal regime costante, che attraversa il territorio comunale da Nord verso Sud. Il suo corso inizia presso Arzenutto, a Nord di Casarsa, a 71 metri sul livello del mare e corre verso Sud fino ad entrare nel comune di Pramaggiore con il nome di Rio Lin; a Gerosa quando si congiunge con il Melon, prende il nome di Loncon finché, confluendo nel Lèmene, giunge alla laguna di Caorle dopo un percorso di una sessantina di chilometri.
Nel 1412 il magistrato veneziano Marco Comaro, dopo aver definito le acque del Molon “acque marze” circondate da boschi, ipotizza la possibilità di una sistemazione idraulica del Loncon allo scopo di “traghetar le legne cum le burchiale”. Conclude ribadendo che; “conzando dicto Loncom se haveria gran quantità de legne per esser quello in boschi”. Le acque del Loncon, pur non essendo navigabili, erano strutturate già in epoca alto-medioevale per far funzionare opifici a forza idraulica e nello specifico i mulini.    
I primi riferimenti sono a Blessaglia (sec. IX), dove, qualche secolo dopo, tra il 1302 e il 1306, è documentata l’investitura di un mulino sul Loncon (molendinum unum) e di otto mansi dei nobili della Frattina. Nel 1277 è attestata invece l’investitura patriarcale di Encasio di Chions di tre mesi e un mulino a Salvarolo, nel quale i contadini portavano a macinare frumento, miglio e sorgo, consegnando altresì al feudatario metà del pesce preso nelle peschiere. Nel 1492 Falcomario di Meduna prende possesso di alcuni beni e di un mulino presso il Melon, nelle attuali pertinenze di Pramaggiore.
Alle soglie dell’era moderna esistevano sulle acque del Loncon ben sei mulini; Gerosa, Prabedoi, Salvarolo, Blessaglia, Mulin di Mezzo e Belfiore. Queste presenze trovano conferma in un disegno del 1672, dove compare un mulino nella località Stagnimbech, in un luogo che è possibile identificare con quello del mulino di Belfiore.  
L’aratura è la lavorazione del terreno eseguita con l’aiuto dell’aratro: è l’intervento meccanico che più comunemente si effettua per la preparazione ordinaria e principale del suolo e serve a migliorare la struttura del terreno, e facilitare la circolazione di aria e acqua, e a interrare materiale organico e minerali.
Essa assume le denominazioni specifiche di «dissodamento e scasso».
Negli ambienti italiani l’aratura è effettuate essenzialmente in autunno o primavera a seconda del tipo di terreno e dell’avvicendamento colturale.
A seconda delle modalità di esecuzione l’aratura si definisce.
a) a colmare: la lavorazione inizia nella zona mediana dell’appezzamento e procede verso i lati esterni longitudinali. Ripetendo per più anni di seguito questa modalità di aratura, si ottiene un profilo convesso (baulatura).  b) a scolmare: il procedimento è opposto al precedente. Si comincia da uno dei due lati esterni del campo e si conclude in mezzeria.
Dopo diversi anni, l’appezzamento tende ad assumere un profilo concavo.
L’erpicatura
La lavorazione completamente del suolo mediante l’erpice è detta erpicatura. L’erpice, un tempo trainato dai buoi, poi dal trattore, uniforma la superficie del terreno e ne spazza le zolle, e lo ripulisce dalle malerbe. In base alle loro caratteristiche tecniche gli erpici possono essere suddivisi in;
a)       a telaio rigido; ne esistono numerosi tipi che si differenziano fra loro sia per la forma e le dimensioni del telaio, sia per gli organi di lavoro disposti su di esso (denti rigidi, lame rigide, lame flessibili). Operano per urto con le zolle.
L’efficacia e la profondità della loro azione dipende dalla lunghezza e posizione dei denti e peso complessivo del telaio;
b)       a telaio snodato; la caratteristica essenziale di quelle macchine è proprio la mancanza di rigidità nei raccordi fra i componenti strutturali del telaio. Sono adatti a terreni piuttosto leggeri o al perfezionamento del lavoro compiuto da altri erpici.   
Uomini e donne di pianura
Il Mulino di Belfiore prima del restauro.
Mais (o Granoturco; Zea mays). Pianta erbacea annuale appartenente alla famiglia delle Poacee; è un cereale a crescita estiva.
È caratterizzato da un culmo, denominato stocco, robusto, eretto, al cui interno è presente il midollo spugnoso. Il mais è dotato di infiorescenze unisessuali: l’infiorescenza maschile è una pannocchia apicale detta pennacchio, quella femminile (spadice) e conosciuta comunemente come pannocchia, costituita da una struttura centrale, il tutolo.
Il ciclo del mais in coltura principale si svolge in primavera-estate. La preparazione del terreno prevede generalmente una lavorazione profonda 35-50 cm, ma sono possibili lavorazioni alternative (minimum tillage). La semina del mais può essere eseguita quando la temperatura del terreno sia almeno di 10°C: indicativamente da aprile alla prima decade di maggio.
La modalità ed il momento di raccolta si differenziano a seconda del prodotto che si intende ottenere. Attualmente per la raccolta della granella è frequente l’uso di mietitrebbiatrici dotate di apposita testata. Il prodotto di una coltura di mais può avere tre tipi di destinazione:  
a)       l’alimentazione di animali da allevamento: a questo fine possono essere utilizzati la granella o la pianta intera (silo-mais);
b)       l’impiego diretto nell’alimentazione umana; la granella in alcune specifiche varietà può essere consumata com’è, previa cottura. Più frequentemente è destinata a molitura, per l’ottenimento di farine da polenta o per dolci, tortillas, e, con specifici trattamenti, pop-corn o corn-flakes;
c)        la trasformazione industriale: il mais può essere usato per la produzione di amido, di distillati, di birra, di oli vegetali, ecc.
La polenta
Esiste una vera e propria cultura della polenta, oggi totalmente rivalutata. Questo cibo ci rimanda alle nostre antichissime origini contadine e quindi al nostro passato. Se vogliamo mangiare una polenta è necessario usare gli stessi rituali di un tempo e gli stessi arnesi. Fu Cristoforo Colombo che portò in Europa insieme ai fagioli e ai pomidoro, alcuni semi di una pianta chiamata mahiz. Gli indigeni con la farina preparavano delle polente arricchite da vari ingredienti: salse, legumi, carne o formaggi. Questo permetteva loro di non ammalarsi, come succedeva invece ai nostri antenati di pellagra.
La malattia colpiva principalmente le popolazioni montane che consumavano tale cibo quotidianamente senza l’apporto di altri elementi, come le vitamine, indispensabili per una dieta equilibrata.
La polenta divenne l’alimentazione dei contadini delle pianure, che nei secoli inventarono numerose ricette: la farina di mais, infatti, è ancora impiegata per cuocere minestre o dolci.
Un tempo si cucinava la polenta fritta, cosparsa di burro e zucchero che faceva la felicità dei bambini (pane giallo),
In Lombardia “nel mese dei morti” per accompagnare la rituale minestra di cotiche e ceci. In Trentino la farina è grossa mista alla saracena che si usa invece in Valtellina (taragna) nel Polesine e nel Delta del Po si usa il granoturco bianco (farina bianca). Ora che il paiolo attaccato alla catena del camino non c’è più, è sufficiente usare una ramaiola, una spatola di legno ed il classico “olio di gomito” per rimestare con forza e costanza quel piccolo sole ridente.  
La semina
Lungo e faticosi erano un tempo i procedimenti per preparare un campo alla semina. La prima cosa da fare era l’aratura che si effettuava con l’impiego di aratri in legno trainati da due buoi assieme a cinque o sei mucche. Era un lavoro durissimo per uomini e bestie. Si lavorava d’estate sotto il sole e senza giorni di vacanza e gli sfiniti animali, perché non si distrassero a mangiare, si mettevano delle apposite museruole. Dopo l’aratura si provvedeva all’erpicatura per frantumare le zolle. E anche per questa operazione si ricorreva alla forza animale a cui si devolveva il compito di trainare ripetutamente il grande erpice di legno. Tra aratura ed erpicatura si potevano impiegare anche due mesi. Ma non era ancora tempo di semina, prima si doveva provvedere a distribuire il concime sui campi e a farlo penetrare nel terreno ripassando con l’erpice. Solo in quel momento i campi erano pronti a ricevere le sementi, operazione anche questa che, nei tempi antichi, veniva svolta a mano con il solo aiuto di un badile.
In seguito iniziò a diffondersi l’uso di seminatrici meccaniche, trainate di solito da un animale. Solo con una completa meccanizzazione dei lavori agricoli furono introdotti sofisticati sistemi di semina.
Tipo cereale
Semina
Raccolta
Mais
Primi di maggio
Settembre/ottobre
Frumento
Novembre
Giugno
Sorgo
Novembre
Giugno
Miglio
Novembre
Giugno
Bregantin (mais)
Giugno
Novembre
Sinquantin (mais)
Giugno
Novembre
Avena
Novembre
Giugno

La trebbiatura
Un tempo, la trebbiatura o battitura si svolgeva battendo violentemente i mannelli di spighe contro una parete di legno o sul suolo, poi venne introdotto il correggiato (già in uso in epoca romana) o un semplice bastone. Fin dall’antichità gli animali domestici furono utilizzati per la trebbiatura di grandi quantitativi di cereali: bovini o cavalli aggiogati spesso in più copie che calpestavano i covoni girando in tondo sull’aia. Per rendere più efficace il lavoro degli animali veniva fatto loro trainare un legno appesantito con due sassi, la cui origine va cercata nella trahea descritta dagli agronomi latini. Nell’era moderna tale legno venne sostituito da un rullo di importazione francese. 
Il vaglio, una volta riempito, veniva sollevato introducendo le mani nei due fori laterali e poi scosso con movimento continuo.
La pula o altre impurità venivano a galla ed erano poi espulse con forti soffi. Tutto il grano era vagliato per togliere la pula quando non si erano ancora diffusi i mulini elettrici a doppio cilindro orizzontale.
Già a partire dagli anni ’20 abbiamo testimonianze della diffusione nel territorio di Pramaggiore della trebbiatrice meccanica. Le trebbiatrici venivano portate nei campi con trattori, utilizzati anche per il loro movimento.
La proprietà di questa era di consorzi o cooperative, talvolta anche di privati che le affittavano o imprestavano.
Trebbiatura meccanica – Primi decenni XX secolo. 
Battitura con il correggiato – Inizi XX secolo.
Fra maggio e giugno parecchie famiglie si affaccendavano intorno ai “cavalieri” (bachi da seta) brulicanti su “leti de grisioe” insaziabili divoratori de “foie de morer” (foglie di gelso).
La bachicoltura, diffusa fino all’affermazione delle fibre sintetiche, contribuiva a integrare il reddito complessivo, perché dalle “gaete” (bozzoli) filati dai bachi si otteneva il filo di seta, poi lavorato nelle filande. Le uova venivano appoggiate su graticci coperti da un letto di foglie di gelso.
I graticci erano tenuti in una stanza calda e la temperatura era mantenuta costante grazie a stufe a legna, dopo qualche giorno nascevano i bachi che dopo 40 giorni passavano lo stadio adulto, venivano poi tolti dai graticci e trasferiti su fascine di bastoncini, dove si arrampicavano a filare le “gaete” (bozzoli).      
Dopo una ventina di giorni iniziavano a “gaetar”: dopo veniva fatta la scelta dei bozzoli a seconda della bellezza, venivano poi puliti e portati in filanda.  

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