IMPUTATO CONFESSI
Fino alla fine del ‘700, torturare un sospetto perché confessasse era quasi ovunque legale
Sarà davvero stato lui? Ci vorrebbero le prove. Oppure meglio ancora, una bella confessione piena.
Ma è l’atto più innaturale che esista. E allora bisogna convincere il presunto colpevole a parlare.
Arrivare alla verità usando ogni mezzo lecito. Ma spesso l’uomo si è spinto anche oltre.
Aceto nelle narici. La più antica delle tecniche strappa confessioni? La tortura. Per gli Egizi era un buon deterrente, ma per i Romani fu molto di più: uno strumento giudiziario perfettamente legale. Per un semplice motivo: la confessione era indispensabile per formulare una condanna. Così quando l’imputato cadeva in contraddizione o i giudici nutrivano ancora qualche dubbio, si ricorreva al dolore fisico. I mezzi per conoscere non mancavano, dalla sospensione con la corda, che consisteva nell’appendere per le mani il sospettato, all’aculeo, una macchina di legno con un complesso sistema di corde e pesi in grado di slogare tutte le articolazioni. Altrettanto spesso, però, i malcapitati erano fatti sdraiare su mattoni roventi o gli si versava aceto nelle narici, mentre un giudice e un notaio prendevano nota di ogni parola. Di tutt’altro tipo erano le prove “del fuoco”, “del veleno” o “della croce”, cui erano sottoposti i sospettati al tempo delle ordalie. Cioè prove inappellabili che chiamavano a testimone addirittura la divinità: se venivano superate decretavano innocenza, altrimenti condannavano senza scampo. Generalmente si trattava di attraversare un rogo senza ustionarsi o di passarsi un ferro arroventato sulla mano o sulla lingua senza lasciare segno. Ma le prove potevano richiedere di immergere la mano nell’acqua bollente o di bere un veleno per vedere l’effetto. O di restare in piedi davanti a una croce con le braccia aperte: chi le abbassava per la stanchezza era considerato colpevole. Pare che solo in qualche raro caso Dio intervenne: come per il monaco beneddito Pietro Aldobrandini, passato alla storia nel 1068 non solo per aver attraversato il rogo senza una bruciatura, ma per esserci ritornato a cercare una manica che gli si era strappata dalla tonaca.
Manuali di tortura. La serie dei supplizi si allargò a macchia d’olio nel Medioevo. con tanto di manuali per carnefici con 600 ricette di tortura diverse, complete di disegni perchè fossero eseguite a regola d’arte. E che seguivano un preciso rituale a cominciare dalla territio verbalis et realis, che consisteva nell’ammonire gli imputati e poi terrorizzarli portandoli nella camera di tortura, dove veniva mostrato loro gli strumenti del carnefice: pinze, tenaglie, ingranaggi e così via. Se nel frattempo arrivava la confessione, tutto finiva lì. Altrimenti cominciava l’inferno: prima torture lievi, come la morsa di ferro per le dita, le tenaglie roventi, gli aghi sotto le unghie. Poi più sadiche, come la tortura della capra, che consisteva nel bagnare le piante dei piedi con acqua salata e farle leccare da una capra, fino a consumare la pelle. Molto comune durante l’Inquisizione era il supplizio dell’acqua, consistente nel versare in bocca, attraverso un imbuto, anche 15 litri di acqua per volta. Sistema comunque meno cruento di altri, come lo stivaletto di ferro che fratturava le caviglie, le sedie con chiodi acuminati e la famigerata “vergine di Norimberga”, un armadio metallico dove chi era rinchiuso veniva trafitto da decine di lunghi aculei. L’attendibilità delle confessioni così estorte? Nulla naturalmente. Piuttosto che subire tali dolori, chiunque sarebbe disposto ad ammettere qualsiasi cosa. Il siero della verità.
più discreto della tortura, ma sufficiente a indebolire la volontà, il siero della verità. I giudici aztechi, si racconta costringevano gli accusati a mangiare funghi allucinogeni per farli confessare. I tentativi moderni risalgono, invece al 1840: il medico francese Jaques-Joseph Moreau de Tours teorizzò che sotto l’effetto di alcune sostanze i pazienti potessero parlare in modo disinibito, rivelando segreti inconfessabili. Un’ipotesi che diede il via all’uso segreto di protossido di azoto, cloroformio e hashish negli interrogatori alla Suretè (la polizia giudiziaria) di Parigi. E a quello, altrettanto segreto, dei barbiturici Amital, Pentotal e Nembutal da parte dell’esercito Usa. Per passare all’Lsd utilizzato dalla Cia negli esperimenti di “lavaggio del cervello” del progetto MK-Ultra, e l’EA1475, il nome in codice militare dell’ecstasy. Ma funzionano? E’ possibile costringere qualcuno a confessare sotto l’azione di stupefacenti? A fare chiarezza è un documento della Cia, il kubark counterintelligence interrogation.
L’ammissione è di quelle clamorose: “Non esiste droga che possa costringere qualcuno a riportare tutte le informazioni che ha”. Al di là dell’abbassamento della soglia di vigilanza, i narcotici e l’ipnosi
- aggiunge il documento della Cia - hanno solo un effetto psicologico: forniscono ai soggetti più “suggestionabili” un ottimo alibi per crollare. Lo dimostrerebbero alcuni esperimenti segreti realizzati con pillole placebo: quasi la metà degli interrogati, credendo di essere drogati, erano più inclini a raccontare tutto. L’interrogatorio. Ed è sempre il documento firmato dalla Cia (pubblicato in Italia da Datanews col titolo manuale della tortura) a rivelare le tecniche di interrogatorio più efficaci per strappare una confessione. A cominciare dalla più famosa, quella stile Mutt & Jeff (il primo recita la parte del violento, dell’irascibile; il secondo si mantiene per contrasto calmo, cordiale, per indurre l’interrogato a confidarsi). E proseguendo poi con tecniche più “scientifiche” e meno conosciute, come gli interrogatori calibrati sulla personalità del sospettato. Per riuscire a strappare una confessione, insiste il documento, bisogna produrre nei “torchiati” una completa dipendenza psicologica, senza lasciare al caso nè orari, nè pasti, nè ore di sonno. Neppure la sedia della stanza dell’interrogatorio: rigida per le fonti “resistenti”, imbottita per quelle “cooperative”. In una escalation di persuasione che include minacce, isolamento, privazione della vista mediante bendaggio e altre violenze fisiche.
Rivelatori si bugie. Se far dire la verità a un sospettato è molto difficile, si può tentare un’altra via: cercare di scoprire se mente. Il capostipite dei “rivelatori di bugie” fu l’idrosismografo, inventato da Cesare Lombroso nel 1885 per dimostrare il legame tra palpitazioni e frottole: la mano dell’interrogato veniva immersa nell’acqua, trasmetteva il ritmo del polso a un tubo di gomma, e quindi a un ago ricoperto di nerofumo che tracciava un grafico su carta. Più tardi si scoprì che nei “bugiardi” variavano anche la resistenza della pelle al passaggio dell’elettricità e il ritmo respiratorio. Unendo questi quattro parametri (pressione, battito cardiaco, resistenza e ritmo respiratorio) venne fuori il poligrafo, la classica “macchina della verità”, impiegata per la prima volta in un tribunale di Chicago nel 1935, e ancora oggi usata da Fbi e Pentagono e da altri 2 mila centri autorizzati per il test della verità di ogni tipo, dall’infedeltà coniugale al taccheggio. Ma secondo molti, la probabilità di falsare i risultati, controllando la respirazione o i muscoli, è molto alta. E così, in maniera più o meno ufficiosa, altre “macchine della verità” si sono affacciate sulla scena, come lo scanner ottico, che misura la dilatazione delle pupilla, lo scanner infrarosso, che misura la temperatura della pelle, o le microonde interferometriche, che analizzano il respiro e gli odori. E non basta, a fare concorrenza al poligrafo è anche il Facs (Facial action coding system) capace, secondo gli ideatori Paul Ekman e Vincent Friesen, di verificare la sincerità di una persona analizzando le contrazioni dei muscoli facciali coinvolti nelle espressioni: un compito delegato a un software che “pesca” in un archivio di 5 mila espressioni riconoscendo le “fasulle” dalle “autentiche”. Meno popolari sono il Volutatore dello stress psicologico (Pse) e l’analizzatore dello stress vocale (Vsa), in grado di distinguere tra affermazioni
“vere”, “false” o “manipolate” grazie a un programma che analizza la voce attraverso il flusso sanguigno alle corde vocali.. Lettura del cervello. E in futuro? Il capitolo “macchine della verità” è tutt’altro che chiuso. Si fa strada una prospettiva in grado di scoraggiare i più incalliti bugiardi: la lettura del cervello, trovando lì la prova della colpevolezza. Come? Attraverso la risonanza magnetica cerebrale, che permette di rilevare un’attività più intensa in quelle aree del cervello “deputate” a dire bugie. Ancora più promettente la “firma elettrica”, la cosiddetta traccia P300, registrata dall’ encefalografo 300 millisecondi dopo che il soggetto ha riconosciuto sullo schermo di un computer un dettaglio chiave: il fermaglio da capelli della vittima, il nastro isolante usato per legarla... Dettagli che solo una persona può avere già visto: l’assassino.
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