venerdì 31 agosto 2012

EBREI

Che differenza c’è fra sefarditi e ashkenaziti?
Sefarditi e askenaziti costituiscono i due rami principali della diaspora. I sefarditi si erano insediati nella penisola iberica (Sefard in ebraico, significa Spagna), mentre gli askenaziti erano stanziati in Germania e nell’europa orientale (Askenaz, nella Bibbia, è una terra identificata nel Medioevo con la Germania). Lingue. Le diversità tra i due gruppi dipendono dall’influsso delle culture con le quali sono stati in contatto. La lingua dei sefarditi per esempio, presenta influenze latine e spagnole, mentre gli askenaziti parlano l’yiddish, un dialetto che mescola l’ebreo a termini germanici e slavi. Altre differenze si trovano nelle architetture delle sinagoghe e nelle rispettive vicende storiche. Dispersi.
I sefarditi, espulsi dalla Spagna nel 1492 e fuggiti in Olanda, Nordafrica, Turchia, Balcani e Italia, sono considerati più ortodossi e conservatori degli askenaziti, che pure hanno subito continue persecuzioni.
Vedi Ashkenaziti
Ebrei Gli appartenenti alla comunità etnica e religiosa che trae le sue origini da alcune tribù semitiche nomadi stanziate nell’area del Mediterraneo orientale prima del 1300 a.C., e insediatesi poi nella “terra di Canaan”, ovvero l’antica Palestina. Qui, rafforzando il loro legame fondato sul culto monoteistico di Yahve, costituirono verso il 1020 a.C. un organismo politico unitario retto da un re. Se come “ebrei”, termine derivato dal nome di Eber, indicato dalla Bibbia (Genesi, 10:21) come uno dei discendenti di Sem, si identificavano gli stessi appartenenti a questo popolo nella fase più antica della loro storia, di origine remota è anche il nome “Israele”; dapprima esso fu proprio del patriarca Giacobbe (Genesi 39:29), poi venne esteso a tutto il popolo considerato suo discendente (Genesi 32:33). Seguendo i testi biblici, che esaltano Yahve come “Dio di Israele” e dei “figli di Israele” (Esodo, 1:7), riferendosi soprattutto al periodo compreso fra la conquista della terra di Canaan e la caduta, nel 721 a.C., dell’omonimo regno di Israele per mano di Sargon II, re degli assiri dal 722 al 705, la lingua italiana indica gli ebrei anche come “israeliti”. Fin dall’epoca della cattività babilonese, tuttavia il termine “ebrei” e come pure le denominazioni derivate dalla parola "Israele" furono sostituiti con l’ebraico yehudhi, originariamente indicante i membri della tribù di Giuda, e successivamente tutto il popolo. I romani denominarono Judaea la Palestina e judaei i suoi abitanti, identificati come depositari di una tradizione religiosa: da judaei derivano, oltre all’italiano “giudei”, poco utilizzato dalla lingua comune, i termini impiegati dalle principali lingue europee per indicare gli ebrei: in inglese jews, in francese juifs e in tedesco juden. Occorre comunque precisare che il termine “giudei” sopravvive in italiano soprattutto con un’accezione religiosa in riferimento esplicito, anche nelle traduzioni dei testi del Nuovo Testamento, agli ebrei avversari dell’ebreo Cristo e, in misura ancora maggiore, agli ebrei che, rivendicando la fedeltà ai principi della loro tradizione religiosa, furono identificati come oppositori dalla stessa componente ebraica della prima comunità cristiana. L’ideale religioso, infatti, pur abbandonato dal XIX secolo da un numero non trascurabile di israeliti, ha costituito il motivo fondamentale per l’identità e l’unità degli ebrei della diaspora, dispersi nei diversi paesi, dall’Europa allo stesso Medio Oriente fino agli Stati Uniti, dal 135 d.C, anno del fallimento dell’ultima rivolta antiromana, fino alla fondazione, nel 1948, dello stato di Israele. Stabilendo un criterio univoco per identificare gli eredi di questa millenaria tradizione, etnica e religiosa insieme, il parlamento israeliano ha definito per legge, nel 1970, come ebreo chiunque sia nato da madre ebrea.
La tradizione delle origini
La ricostruzione scientifica della storia più antica degli ebrei nel quadro delle migrazioni dei popoli del Vicino Oriente fra il III e il II millennio a.C. appare oltremodo difficile. Gli studiosi fin dal secolo scorso hanno tentato di reinterpretare, specialmente sulla base dei dati archeologici, i contenuti della tradizione biblica, e soprattutto il materiale relativo all’epoca dei cosiddetti patriarchi, confluito nel libro della Genesi intorno al VI secolo a.C., epoca della sua redazione definitiva, insieme agli altri quattro libri della prima e fondamentale sezione della Bibbia: Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio. Se, infatti, la storia ebraica può essere ricostruita su fondamenti sufficientemente attendibili soltanto a partire dall’epoca monarchica, la tradizione religiosa degli ebrei, invece, attribuisce un’importanza centrale proprio alle vicende che precedettero questa fase più propriamente storica nel senso moderno del termine. La tradizione biblica identifica dunque gli antenati degli ebrei con i nomadi “aramei” della Mesopotamia meridionale, dalle cui file discenderebbe Abramo, emigrato dalla città di Ur per stabilirsi infine nella regione intorno al fiume Giordano; qui egli sarebbe divenuto il capostipite di un popolo distinto dalle altre tribù contigue, come gli ammoniti, i moabiti e gli edomiti in quanto adoratore dell’unico Dio.
Forse connessa con l’espansione degli hyksos, i dominatori semitici dell’Egitto fra il 1694 e il 1600 a.C., è la vicenda egiziana degli ebrei che, penetrati al di là del Sinai, avrebbero conosciuto il successo e la prosperità prima di essere praticamente ridotti in schiavitù, intorno al 1570 a.C. In questo contesto storico si colloca probabilmente l’epopea della liberazione e dell’esodo al di là del mar Rosso, episodio non documentato dalle fonti egiziane, forse a motivo dell’esiguo numero di ebrei effettivamente coinvolti, ma di importanza fondamentale per la tradizione ebraica, che identifica in Mosè il condottiero incaricato dalla divinità di guidare il suo popolo verso la libertà e la terra promessa. Mosè avrebbe ricevuto da Dio, sul monte Sinai, le tavole della legge, fondamento della vita sociale e religiosa del suo popolo, chiamato a prendere possesso di quella terra situata a occidente del Giordano la cui conquista sarebbe stata portata vittoriosamente a termine sotto la guida di Giosuè, dalle dodici tribù di Israele.
Il regno
Attraversato dunque il Giordano e conquistata la città di Gerico, gli ebrei si insediarono nella Palestina occidentale, soggiogando le popolazioni locali, i cananei, e respingendo gli attacchi dei moabiti e dei filistei, il popolo di origine egea da cui prende il nome alla Palestina. Consolidate le loro posizioni sotto la guida dei capi militari e civili noti come “giudici”, gli israeliti raggiunsero un’effettiva unità politica con il primo re, Saul, salito al trono intorno al 1020 a.C. e caduto combattendo contro i filistei. Con il successore Davide la conquista di Gerusalemme, antica fortezza cananea proclamata capitale del regno, segnò l’inizio del periodo di massimo splendore per l’antico Israele, ormai dominatore di tutti i popoli dell’area palestinese e sempre più unito dall’ideale religioso. Salomone, figlio di Davide, promosse la costruzione del tempio di Gerusalemme, il simbolo supremo dell’ebraismo antico, e dotò il regno di una struttura amministrativa e militare degna di una potenza internazionale, anche se la pressione fiscale e il lavoro forzato, strumenti necessari per realizzare opere poderose quali la fortezza di Meghiddo (riportata alla luce dagli archeologi fra il 1925 e il 1939), suscitarono lo scontento della popolazione, creando i presupposti per la rivolta guidata da Geroboamo; costui, alla morte di Salomone, avvenuta intorno al 922, rientrò dall’Egitto dove si era rifugiato sotto la protezione del faraone Sisach (946-913); di fronte al rifiuto di Roboamo, figlio e successore di Salomone, di procedere ad alcune riforme in campo politico e sociale, Geroboamo condusse la spedizione militare che avrebbe portato alla divisione del regno: egli stesso sarebbe stato proclamato sovrano del regno di Israele, costituito dalle regioni settentrionali della Palestina, mentre Roboamo avrebbe conservato la sovranità sul solo regno di Giuda, un territorio che si estende per circa 775 km2 intorno a Gerusalemme. Con il re Omri (876-869), fondatore, intorno all’870, della capitale Samaria, il regno di Israele conobbe un periodo di eccezionale prosperità, mentre gli anni di suo figlio Acab furono segnati da una dura controversia religiosa scatenata dall’atteggiamento di sua moglie Gezabele, una principessa di Tiro decisa a introdurre fra gli ebrei le pratiche del paganesimo della sua terra d’origine, respinte come idolatriche dal monoteismo ebraico ed esplicitamente condannate dalla legge mosaica; è questa l’epoca dei profeti, figure come Elia, Eliseo, Amos e Osea, solleciti nel levare la loro voce contro quella che sembrava loro un'intollerabile degenerazione religiosa, un tradimento dell’Alleanza con l’unico Dio. Ma sul regno incombeva ormai l’ombra degli assiri, potenza dominante del Vicino Oriente nell’VIII secolo a.C.: se un primo tentativo d’invasione, condotto nell’853 da Salmanàssar III (859-824) fu respinto da Israele, associato alla coalizione di piccoli stati guidata dal re di Damasco Ben Hadad I (morto intorno all’841), nulla poté il regno settentrionale nel 734 di fronte alle armate di Tìglat Pilèzer III (745-727). Caduta fra il 722 e il 721 anche la roccaforte di Samaria, molti degli abitanti furono deportati e la capitale fu ripopolata con coloni assiri che avrebbero adottato la religione ebraica e costituito, con gli israeliti rimasti, la stirpe dissidente dei samaritani. Il regno di Giuda dovette invece soccombere alla potenza dell’impero babilonese, e già nel 598 a.C. Gerusalemme fu conquistata da Nabucodònosor II, che lasciò comunque una minima autonomia agli ebrei elevando al rango di re il principe Sedecìa; la rivolta guidata nel 588 dallo stesso Sedecìa condusse alla fine dell’indipendenza del regno, con l’intervento delle armate di Nabucodònosor che nel 586 distrussero il tempio di Gerusalemme deportando a Babilonia l’élite intellettuale e politica del popolo ebraico.
Dai babilonesi ai romani

La comunità degli ebrei deportati a Babilonia a partire dal 597 riuscì comunque a mantenere, unendosi con i gruppi già insediatisi in quella città dopo la caduta del regno di Israele del 721, la propria identità religiosa, soprattutto grazie all’azione del sacerdote Ezechiele, che indirizzò i compagni di esilio verso una religiosità di carattere spirituale; la preghiera divenne la pratica fondamentale dei devoti, ormai privi del Tempio, luogo dei solenni riti del sacrificio. La speranza di un ritorno nella patria perduta si concretizzò nel 538 a.C., quando l’imperatore persiano Ciro il Grande, un anno dopo la sua conquista di Babilonia, restituì agli ebrei la libertà, consentendo il rientro in Palestina di una comunità di circa 42.000 individui. Guidati da Zorobabele, raggiunsero Gerusalemme determinati a ricondurre, sull’onda della predicazione vigorosa dei profeti Aggeo e Zaccaria, la loro terra all’antico splendore. Si giunse così, nel 516, alla ricostruzione del tempio, e a questa data la tradizione ebraica fa risalire la fine della cattività babilonese, attribuendole la durata convenzionale di 70 anni, dal 586 al 516. Anche se lentamente, l’opera di ricostruzione della Palestina procedette nei decenni successivi, fino al 445, anno in cui Neemia, coppiere del re persiano Artaserse I (465-425), assunse la carica di governatore imprimendo una svolta decisiva al processo di restaurazione del regno e della religione dei padri, evoluzione che fu ulteriormente accelerata soprattutto dopo l’arrivo a Gerusalemme di Esdra, il sacerdote posto dalla tradizione a fianco di Neemia, ma più verosimilmente inviato dalla comunità babilonese solo nel 398 o nel 397.
Caratterizzò la storia degli ebrei nel IV secolo a.C. una rinascita religiosa, avvenuta quando una potente casta sacerdotale seppe imporre la legge mosaica come principio normativo fondamentale per l’intero corpo sociale, tanto che la fede comune sarebbe divenuto l’unico motivo di identificazione per un popolo peraltro privo di autonomia politica.
Con il crollo dell’impero persiano di fronte ad Alessandro Magno nel 331 a.C. e il passaggio della Palestina sotto il dominio macedone, prese avvio quel fenomeno di emigrazione che vedrà le comunità ebraiche prosperare economicamente e culturalmente nei centri della nuova compagine imperiale, dalla stessa Alessandria fino alle coste del mar Nero: l’uso della lingua greca non farà dimenticare agli ebrei la loro tradizione religiosa, tanto che nel III secolo i libri biblici verranno tradotti dall’ebraico al greco, si tratta della celebre versione dei Settanta, a uso dei fedeli che non comprendevano più la lingua dei padri. Assegnata dapprima a Tolomeo I d’Egitto in seguito alla divisione del regno fra i successori di Alessandro dopo la sua morte nel 323, la Palestina passò nel 198 sotto il dominio di Antioco III di Siria e dei sovrani Seleucidi, inclini a imporre la cultura ellenistica e a sradicare la tradizione dell’ebraismo; così tentò di fare Antioco IV, che nel 168, dichiarando fuori legge la religione degli ebrei, fece collocare nel tempio di Gerusalemme un altare in onore di Zeus. Contro questi provvedimenti si scatenò la reazione degli israeliti più devoti, guidati dal sacerdote Mattatia e dai suoi figli, i Maccabei, che riuscirono, dopo un duro confronto militare, a sconfiggere le forze straniere instaurando un regno indipendente retto dalla dinastia degli Asmonei, loro diretti discendenti. In epoca asmonea, la ricerca di una visione religiosa il più possibile pura di fronte alle influenze straniere porterà alla formazione delle correnti, come quelle dei farisei, dei sadducei e degli esseni, che caratterizzeranno l’ebraismo nei secoli successivi, e all’istituzione del Sinedrio, la suprema autorità legislativa formata da 71 saggi.
L’instabilità politica caratteristica del periodo asmoneo raggiunse il suo culmine nel I secolo a.C. con la lotta tra i fratelli Ircano II e Aristobulo II, entrambi aspiranti al trono: Aristobulo, apparentemente sostenitore di Ircano, tramando dietro le quinte con i romani per risolvere il conflitto a suo favore e fare della Giudea uno stato vassallo dell’impero romano, aprì la strada all’esercito di Pompeo, che entrò a Gerusalemme nel 62 a.C.; nel 47 a.C. Aristobulo divenne reggente di un regno di Giudea che era di fatto un protettorato romano, rimasto tale anche durante il mandato di suo figlio Erode il Grande, incoronato re nel 37 a.C. Con la riduzione della Giudea, nel 6 d.C., al rango di provincia amministrata direttamente, iniziò un periodo caratterizzato da una parte dall’attività di alcuni gruppi ebraici che, mal tollerando l’atteggiamento collaborazionista delle autorità religiose, ambivano alla liberazione dal potere romano, e, dall’altra, dai primi passi del cristianesimo, sorto in Giudea e diffusosi poi soprattutto fra i pagani, ma anche fra i circa otto milioni di ebrei sparsi fuori della loro patria, da Babilonia a Roma, in un contesto spesso conflittuale con gli israeliti rimasti fedeli alla loro tradizione religiosa.
La rivolta antiromana promossa nel 66 a.C. dagli zeloti fu domata dalle truppe guidate prima da Vespasiano e poi da Tito, e si concluse di fatto con la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70, anche se l’ultima roccaforte della resistenza, Masada, cadde soltanto nel 73. L’ebraismo fu praticamente sradicato dalla Giudea per iniziativa dell’imperatore Vespasiano, che fece di Gerusalemme una città pagana ribattezzandola Aelia Capitolina in onore di Zeus. Il fallimento della disperata rivolta condotta da Simon bar Kochba fra il 132 e il 135 portò a un ulteriore inasprimento delle misure contro gli ebrei, ormai posti di fronte al divieto di praticare la loro fede nella loro patria e di entrare in Gerusalemme. Nella rovina della città santa i cristiani vedranno ben presto la giusta punizione divina contro gli ebrei a motivo della loro incredulità di fronte a Cristo, e questo atteggiamento porterà, soprattutto con il trionfo del cristianesimo dopo il 313, a un’animosità sempre crescente verso gli israeliti, esecrati come “deicidi” perché ritenuti responsabili della morte di Cristo.
Fra Islam e cristianesimo
Ormai lontani dalla loro patria ed esposti alle persecuzioni, gli ebrei riuscirono comunque a conservare la loro identità culturale soprattutto grazie all’opera dei rabbini, i maestri della legge, impegnati a commentare le Scritture e a codificare minuziosamente i precetti della religione dei padri: frutto di questa attività di interpretazione della tradizione antica è il Talmud, costituito dalle due sezioni della Mishnah, raccolta degli insegnamenti orali, e della Gemarah, ampio commentario alla stessa Mishnah, redatte in forma scritta fra il V e il VI secolo in due versioni dai maestri delle scuole religiose attive in Palestina – il “Talmud palestinese” o “Talmud di Gerusalemme” – e a Babilonia – il “Talmud babilonese” – prima sotto i parti e poi, dal 227 d.C., sotto i Sassanidi. L’avvento dell’Islam, imposto in Mesopotamia già nel 637, non rappresentò una minaccia per la sopravvivenza delle comunità ebraiche; neppure le restrizioni imposte dal califfo Omar I, che ingiunse agli ebrei di apporre ai propri abiti un segno distintivo di colore giallo, furono considerate vincolanti nei califfati del mondo islamico. I dotti israeliti poterono così collaborare con i filosofi musulmani nello studio e nell’interpretazione della opere capitali della filosofia greca: questa posizione di preminenza in ambito culturale e sociale caratterizzò, dopo il X secolo, la vita degli ebrei presenti in buon numero nella Spagna musulmana, dove essi raggiunsero spesso le più alte cariche politiche e amministrative e resero possibile la diffusione in Occidente dei testi dei filosofi greci, soprattutto Aristotele, traducendoli da versioni arabe.
La fine della dominazione islamica nella penisola iberica nel XIII secolo segnò per gli ebrei l’inizio dell’epoca delle persecuzioni sotto i cosiddetti “re cattolici”, e già nel 1215 il concilio Lateranense IV , convocato dal papa Innocenzo III, varò una politica di restrizione nei confronti delle comunità ebraiche, imponendo il segno distintivo sugli abiti e creando le premesse per l’istituzione del ghetto, il quartiere isolato entro i cui confini erano costretti a risiedere gli israeliti nelle città principali. Espulsi dall’Inghilterra nel 1290 per iniziativa del re Edoardo I e dalla Francia per decreto emanato dal re Carlo VI nel 1394, gli ebrei di Spagna furono costretti a convertirsi in massa al cristianesimo, e ben presto l’Inquisizione spagnola, istituita nel 1478, si impegnò a scovare quegli israeliti bollati come marranos – in spagnolo “porci” – perché accusati di continuare a professare segretamente la propria religione nonostante l’accettazione formale della fede cristiana. Espulsi anche dalla Spagna nel 1492 e dal Portogallo nel 1497, gli ebrei trovarono rifugio, oltre che in Olanda e a Costantinopoli, nell’Europa orientale, soprattutto in Polonia, dove il loro numero ammontava nel 1648 a circa 500.000 individui. Qui essi vissero raccolti in comunità che godettero di una certa autonomia culturale e religiosa prima di divenire oggetto, fra il 1648 e il 1658, della violenta persecuzione scatenata dai seguaci di Bohdan Khmelnytsky, il leader dei cosacchi ucraini.
L’epoca moderna
Ritornati in Inghilterra dopo il 1650, all’epoca di Oliver Cromwell, e incoraggiati a insediarsi nelle colonie americane, gli ebrei furono riammessi anche in Francia nel 1791, nel contesto degli ideali libertari della Rivoluzione francese adottati pure da Napoleone, che nel corso delle sue campagne militari affrancò gli israeliti confinati nei ghetti delle varie città europee. La nuova politica di repressione, favorita dalla Restaurazione dopo il 1815, non bloccò comunque il processo di integrazione degli ebrei nella vita sociale dei paesi dell’Europa occidentale, e intorno al 1860 la loro cosiddetta “emancipazione” poteva dirsi fatto compiuto.
L’Europa orientale conobbe invece un’epoca di recrudescenza delle persecuzioni antiebraiche soprattutto dopo l’annessione alla Russia, fra il 1772 e il 1796, delle regioni orientali della Polonia; il regime zarista favorì direttamente i pogrom, periodici massacri di ebrei, la cui presenza era considerata una fonte di diffusione degli ideali liberali nel contesto ancora semifeudale dell’impero russo della fine del XIX secolo. Per sottrarsi alle persecuzioni, scatenate fino alla rivoluzione comunista del 1917, circa due milioni di israeliti viventi nei territori posti sotto il controllo russo emigrarono negli Stati Uniti fra il 1890 e la fine della prima guerra mondiale, unendosi alle comunità già presenti in quel paese fin dal 1654, anno dell’immigrazione di un gruppo di “marranos” brasiliani, a cui fece seguito l’insediamento, dal 1780, e, in misura maggiore, dal 1815, di ebrei europei e soprattutto, dopo il 1848, tedeschi. Nel 1924, pertanto, la popolazione statunitense di origine ebraica ammontava, quando furono imposti limiti al flusso migratorio, a circa tre milioni di unità.
L’emancipazione ormai raggiunta in Europa occidentale spinse gli ebrei a superare il loro isolamento integrandosi nella vita sociale e politica dei paesi in cui si trovavano, e il XIX secolo conobbe così, accanto a figure come quella di Moses Mendelssohn, traduttore della Bibbia in tedesco e fondatore di un ebraismo che sarà detto “riformato” a motivo dell’atteggiamento di apertura verso le istanze della cultura moderna, personaggi quali il poeta tedesco Heinrich Heine, ebreo convertito al cristianesimo e lo statista inglese Benjamin Disraeli, figlio di un ebreo convertito. Se Karl Marx e Sigmund Freud erano ebrei apparentemente lontani dalla cultura dei padri, come anche Albert Einstein e il pittore Camille Pissarro, i decenni a cavallo fra il XIX e il XX secolo saranno caratterizzati dall’attività di alcuni movimenti che, prendendo le mosse dalle istanze di rinascita culturale tipiche della Haskalah, o “illuminismo ebraico”, inviteranno le comunità israelitiche a riscoprire, anche al di fuori della dimensione religiosa, la propria identità tradizionale e la propria storia, promuovendo anche il ritorno all’uso dell’ebraico come lingua parlata (vedi Ebraismo riformato).
Quest’epoca di intensa attività intellettuale sarà caratterizzata dal sorgere di una nuova forma di ostilità nei confronti della popolazione di origine ebraica, il cosiddetto “antisemitismo”, termine utilizzato per definire l’atteggiamento proprio dei diversi movimenti di pensiero inclini a individuare gli ebrei, quale che fosse il loro orientamento in materia politica e religiosa, come componente razziale da considerarsi comunque non appartenente al novero dei popoli europei. Il diffondersi di posizioni di questo genere in Francia condizionò sicuramente la vicenda nota come “affare Dreyfus”, dal nome dell’ufficiale ebreo ingiustamente condannato per tradimento al termine di un celebre processo, che ebbe fra i suoi spettatori più attenti l’ebreo austriaco Theodor Herzl, il padre del sionismo, il movimento da lui fondato nel 1896 per dare voce agli israeliti decisi a rivendicare la creazione di uno stato ebraico indipendente come unica soluzione al problema dell’antisemitismo e di ogni forma di intolleranza. Le speranze del sionismo si realizzeranno compiutamente soltanto nel 1948, con la creazione dello stato d’Israele dopo le tragiche vicende dell’Olocausto, lo sterminio degli ebrei perpetrato dagli ideologi del nazismo negli anni della seconda guerra mondiale.
La discriminazione degli ebrei fu solo colpa del fascismo?
Oppure in Italia il germe dell’antisemitismo trovò un terreno fecondo?
Un colpo non meno vigoroso è stato inflitto agli ebrei dal Consiglio dei ministri nella tornata del 2 settembre. Parole di Goebbels? No, di Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, da sempre interprete dei pensieri della Chiesa sulle questioni politiche e sociali.
Occasione, il varo delle leggi razziali nel 1938. Vediamo attuarsi quella terribile sentenza che il popolo deicida ha chiesto su di sè e per quale va ramingo per il mondo.
Un inquisitore medioevale? No, padre Agostino Gemelli fondatore dell’Universita Cattolica Sacro Cuore, in appoggio a quelle leggi. Nel 1924, per la morte di un intellettuale ebreo, aveva scritto. Ma se insieme al positivismo, il socialismo, il libero pensiero e con il Momigliano morissero tutti i giudei che continuano l’opera dei giudei che hanno crocifisso nostro Signore, non è vero che al mondo si starebbe meglio? Poi, per giustificarsi, rincarò la dose: era stata una reazione alle brutture.

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