martedì 28 agosto 2012

IL VAMPIRO DI SACRAMENTO

I poliziotti americani sono abituati alla violenza. Nonostante ciò, quando il 23 gennaio 1978 entrarono nell’appartamento di Terry Walin, a Sacramento, rimangono disorientati. Non hanno mai visto una simile brutalità, la vittima, una giovane donna di 22 anni, è stata sventrata, il seno sinistro reciso e i genitali tagliuzzati. Vicino al suo corpo, un vasetto di yogurt sembra essere stato usato dall’assassino per berne il sangue. I detective decidono di interpellare Robert Ressler, uno specialista di comportamenti criminali della Behavorial science unit (Bsu) L’Unità di scienze comportamentali dell’Fbi nata in quegli anni per contrastare il proliferare dei serial killer. Sono casi, questi,  in cui non si tratta di cercare un movente ordinario, nè un colpevole tra le persone vicine alla vittima. Ma di tracciare i contorni di un delirio. E’ questa la specialità degli uomini della Bsu, cui si è ispirato anche Thomas Harris per scrivere il thriller
il silenzio degli innocenti. Ressler si convince subito che l’assassino ha agito sotto la spinta di una pulsione irresistibile, e che colpirà di nuovo. Secondo lui l’omicida è un uomo di razza bianca: le statistiche dimostrano infatti che i serial killer sono spesso di sesso maschile e che colpiscono in seno alla propria comunità etnica. Ha circa 25 anni: le prime pulsioni criminali si rivelano di solito nell’adolescenza, cui vanno aggiunti 8-10 anni di incubazione. E’ molto magro. “C’è una correlazione tra forma e psicosi e aspetto fisico”. Un caso come quello di Sacramento implica un disinteresse completo per l’alimentazione. L’assassino trascura anche la pulizia e l’abbigliamento, la sua casa è uno sfacelo. Infine è celibe: chi potrebbe vivere con un simile compagno? La casa degli orrori.
Quattro giorni dopo il primo delitto, in un edificio vicino vengono scoperti tre cadaveri: quelli di Evelyn Miroth (38 anni), suo figlio Jason (6) e Daniel Meredith (51), un amico di famiglia. Inoltre un bambino di 22 mesi, David, è scomparso. Lo stato della sua culla, insanguinata, non lascia speranze di ritrovarlo vivo. Queste morti rafforzano in Ressler che l’uomo viva e colpisca nello stesso quartiere.
Il profilo stilato dallo psicologo viene diffuso da radio e giornali. La testimonianza di una giovane donna si rivela decisiva: pochi giorni prima aveva trovato nel quartiere di un centro commerciale un ex compagno di college, ed era stata colpita dalla sua magrezza e sporcizia, dal suo sguardo allucinato. Dopo una breve indagine, Richard Trenton Chase, 28 anni, viene localizzato: abita a qualche isolato dai luoghi dei delitti. Disseminati sul pavimento del suo appartamento i poliziotti trovano piatti contenenti resti umani e, in cucina, recipienti con avanzi di cervello e frullatori ricolmi di sangue e parti di organi. L’incubo può dirsi concluso. Parallelamente alle inchieste, Ressler non ha mai smesso di esplorare le menti di questi esseri terrificanti. E così che ha incontrato in prigione abominevoli assassini come Ed Kemper, cannibale e necrofilo, che giocava a freccette con la testa della madre posata sul caminetto; Herbert Mullin, che credeva di impedire i terremoti con i suoi omicidi e stabiliva il grado di inquinamento dell’aria dalle viscere delle vittime; Jeffrey Dahmer, che trapanava il cranio delle sue prede allo scopo di versarci dell’acido muriatico... Ma Robert Ressler, oggi in pensione, non ha mai perso la sua flemma. “Il mio segreto? La distanza. Mai identificarsi con gli assassini. Io viaggio nel loro cervello come gli speleologi esplorano le grotte, senza mai perdere i riferimenti per non smarrirsi. Il bombarolo della Stiria.  Thomas Muller, austriaco è allievo di Ressler. Ha giocato un ruolo fondamentale in una delle più rilevanti storie criminali dell’Austria moderna. La vicenda ha inizio il 3 dicembre 1993. Il parroco di Hartberg, in Stiria, riceve una bomba carta che lo ferisce gravemente al viso e alle mani. Nello stesso giorno viene ferita una giornalista televisiva che si occupa di minoranze etniche. E due giorni dopo è la volta di Helmut Zilk, ex sindaco di Vienna, che perde una mano. Il 6 dicembre una quarta bomba ferisce seriamente la segretaria di uno studio legale di Vienna. Che sta succedendo in Austria? La polizia riceve un messaggio firmato da un misterioso gruppo politico, l’Armata di liberazione Bajuvare (nome dell’antico popolo della Baviera). Nei mesi seguenti si susseguono altri attentati xenofobi. Le forze dell’ordine riescono a intercettare 6 ordigni, ma nel febbraio del 1995 una nuova bomba uccide quattro persone e ne ferisce dieci. Il congegno esplosivo era stato nascosto dietro un cartello che esortava gli zingari a “tornare in India”. Quando alcuni rom hanno tentato di strapparlo, la bomba è scoppiata. L’Austria è nel panico. La polizia non riesce a identificare questo gruppo di estrema destra, che sembra sorto dal nulla. Entra in scena Thomas Muller. Legge con attenzione le lettere inviate dall’Armata, studia le foto degli ordigni. Le sue conclusione so altrettanto esplosive: non esiste alcun  gruppo politico, dietro gli attentati c’è un solo uomo. Uno psicopatico in preda a un odio inestinguibile. delirio inarrestabile. Per Muller l’uomo ha una cinquantina d’anni. Vive in un piccolo villaggio, saldamente ancorato alle tradizioni. Celibe, ha conosciuto solo delusioni sentimentali. Intelligente ma di origini modeste, non ha potuto proseguire gli studi come avrebbe voluto. Sempre relegato a fare lavori minori, a maturato a poco a poco un’amarezza delirante verso il  proprio Paese e gli stranieri che vi risiedono. Dopo diversi ricoveri in ospedali psichiatrici, si è chiuso in se stesso e non esce neanche più dalla sua stanza, dove fabbrica le bombe con cura maniacale. Muller ha infatti osservato con le pile all’interno degli inneschi sono sempre collocate seguendo l’ordine dei loro numeri di serie. Il suo verdetto è che l’assassino non si fermerà mai. Ma Muller ritiene anche lo si possa provocare. Come? L’uomo è osservato dal rigore: bisogna tentare di ribaltare l’ordine della sua vita in modo  che commetta un errore. Per esempio rendendo di dominio pubblico il suo profilo psicologico, dimostrandogli che la polizia conosce bene lui e le sue ossessioni. “A quell’epoca” racconta Muller “ero terrorizzato dall’idea di saltare in aria aprendo la portiera dell’auto o infilando la mano nella cassetta della posta”. Il 1° ottobre 1997, due donne si presentano al commissariato di polizia.
Un loro vicino non smette di seguirle e di spiarle. Nessuno collega queste dichiarazioni con il caso che sta tenendo l’Austria con il fiato sospeso. Ma quando i poliziotti sorprendono l’uomo nella sua automobile, si accorgono che tiene accanto a sè una strana bottiglia. Non hanno neanche il tempo di verificarne il contenuto che egli la fa esplodere, spappolandosi le mani. Il piano predisposto da Muller aveva funzionato perfettamente. L’uomo, reso totalmente paranoico dalla pubblicazione del suo profilo, si era messo in testa che le due donne fossero poliziotti. Sul filo del rasoio. Il killer si chiama Franz Fuchs, è un tecnico di 49 anni nato a Gralla in Stiria, da una famiglia indigente che non gli ha potuto pagare gli studi universitari; sognava di diventare fisico nucleare, finirà per fare l’operaio alla Wolksvagen e poi alla Mercedes; volenteroso autodidatta, si sente però incompreso dai suoi capi.
Di ritorno al paese natale,  tenta il suicido; viene internato in un istituto psichiatrico. Poi si chiude nelle due stanze che occupa nella casa di famiglia. Neanche i genitori sapevano che cosa fabbricasse tutto il giorno. Ogni mattina Thomas Muller apre un dossier e si immerge nella scena di un delitto tentando di immaginare nei minimi dettagli i fatti di sangue che si sono svolti. Sposato, padre di due bambini ispira equilibrio e gioia  di vivere. Come fa? “Avanzo sempre come se mi trovassi sul filo di un rasoio: non devo mai perdere il  sangue freddo, mai scostarmi dalla mia voce interiore. E’ questa sola condizione che rimango sano di spirito”. Il maniaco superstizioso. Si conta un solo profiler  negli uffici della polizia giudiziaria francese. La mosca bianca si chiama Pierre Leclair. Barbuto, sorridente, quest’uomo di mezza età, accanito fumatore di pipa, ricorda Maigret. “Non confondiamo” precisa:
“Lo psicocriminologo non è un  poliziotto. Non è suo compito fare ipotesi o trarre conclusioni.
Si limita a studiare in dettaglio gli indizi sul luogo del crimine per comporre la personalità dell’assassino”. E’ così che l’intervento di Leclair ha permesso di arrestare, subito dopo il suo primo crimine, un potenziale assassino seriale. Tutto era cominciato con quella che sembrava una piccola rapina a un vivaio di piante di una località balneare... Nel tardo pomeriggio, un uomo armato entra e minaccia Evelyne, una segretaria rimasta sola in ufficio. L’aggressore intasca il bottino - qualche centinaio di franchi - poi costringe la donna a condurlo alla sua auto. La fa guidare fino a una foresta di pini fuori città,  poi le indica un sentiero e le fa cenno di fermarsi. Intanto scende la notte. Il delirio ha inizio. Violenze, colpi, umiliazioni. Quando l’aggressore è finalmente stufo, estrae un coltello e vibra 12 colpi a Evelyne. Sicuro che la vittima sia morta, fa per coprirla di terra e di rami. Ma Evelyne grida è ancora viva. L’assassino solleva ancora una volta l’arma contro di lei, ma deve fuggire per il sopraggiungere di alcuni passanti, richiamati dalle urla. Tradito dalle scarpe. Evelyne sopravvive alle ferite, e qualche settimana dopo è in grado di fornire precise indicazioni sul suo aggressore. malgrado ciò l’inchiesta non sortisce alcun risultato. Viene consultato Pierre Leclair. Il profiler legge le testimonianze della vittima, osserva con attenzione le foto della scena del crimine. Tutto a un tratto nota un dettaglio. Chiede di interrogare Evelyne, che però non è entusiasta all’idea di raccontare ancora una volta il suo calvario. Ma lo psicologo le pone una sola domanda: “L’assassino ha adottato un comportamento particolare riguardo alle sue scarpe?” Scavando nel profondo della memoria Evelyne rivede un effetti il suo boia toglierle le scarpe. Leclair la incita a ricordare ancora. L’assassino ha anche avuto cura di incrociarle le mani sul petto prima di seppellirla. E questo che lo psicologo voleva sapere: sulle fotografie ha osservato che le scarpe di Evelyne erano state posate con cura vicino al suo corpo. Nel sotterrarla, l’assassino non aveva voluto solo nascondere il cadavere aveva organizzato un vero e proprio rito funebre. Il dettaglio delle scarpe tradisce una superstizione precisa: l’omicida voleva impedire alla sua vittima di tornare a tormentarlo. Leclair consiglia ai poliziotti di orientare le ricerche verso le comunità religiose della regione con inclinazioni all’esoterismo. Ma senza esito. Poi gli inquirenti rivolgono l’attenzione ad alcune famiglie tzigane accampate non lontano dal luogo del crimine: numerose usanze rom riguardano l’ultimo viaggio dei morti. Presto i sospetti trovano riscontro. L’assassino viene identificato, localizzato e arrestato in Spagna. Senza il dettaglio delle scarpe, sarebbe ancora libero.
LA RADICE XENOFOBA Degli attentati indica un forte attaccamento alle tradizioni locali.
SE A 50 ANNI non  è sposato (è libero di fare bombe) ha avuto molte delusione amorose.
L’USO DELL’ESPLOSIVO è sintomo di grave frustazione sul lavoro. Rinchiuso in se stesso, è stato probabilmente ricoverato in ospedali psichiatrici. La meticolosità con cui fabbrica le bombe è sintomo di un’ossessione per l’ordine.

Nessun commento:

Posta un commento