Hanno fotografato la morte di una stella. Si tratta di uno degli eventi più interessanti e spettacolari che si possano osservare nel cielo. E sta catturando l’ attenzione degli astronomi da oltre un anno, precisamente dall’epifania del 2002 quando per la prima volta, si notò l’esplosione di una debole stellina nella costellazione dell’Unicorno a cinquantamila anni luce dalla Terra. La storia di V 838 MON (questo è il nome scientifico della stella) e una delle più appassionanti degli ultimi decenni, per quanto riguarda l’astronomia e l’astrofisica. Infatti, mai prima d’ora si era potuto studiare così bene la nascita di una supernova, cioè di una stella che raggiunge un’eccezionale splendore attraveso un’esplosione. E queste ricerche a quasi due anni di distanza, ci rivelano novità preziosissime per comprendere il ciclo di vita selle stelle. Ma andiamo con ordine era l’Epifania del 2002 quando, per la prima volta, osservando la costellazione dell’Unicorno con i telescopi gli astronomi si accorsero che una stellina si ingigantiva sempre più aumentando la sua magnitudo cioè la sua luminosità al punto da farla diventare 600 mila volte più brillante del nostro Sole. Se per noi l’evento è passato innosservato, è stato a causa dalla grande distanza che ci separa da quel dramma cosmico: ventimila anni luce equivalgono a circa diciotto miliardi chilometri. Eppure attraverso i telescopi, la trasformazione imporovvisa di V 838 Mon stava rendendo questa piccola stella l’oggetto più brillante della nostra galassia. Che come stava accadendo? La risposta per gli scienziati era chiara: la stella era giunta alla fine del suo periodo vitale. L’equilibrio interno che ne contraddistiungue la vita (equilibrio tra gravità e forza esplosiva) andava sbilianciandosi a favore della seconda. In particolare come accade per le stelle che giungono alla fine del loro ciclo vitale, si era esaurita la scorta di idogeno (il carburante usato dalle stelle) e si stavano accendendo per via delle temperature enormi (fino a 18 mila gradi) elementi più pesanti come l’elio. Così la stella si stava espandendo fino a raggiongere pari a duemila volte il nostro Sole. Ma in un altro fenomeno, che nel nostro secolo era stato osservato solo nel 1936, aveva risvegliato l’interesse degli scienziati. Quella della cosidetta eco luminosa. Una stella, prima di morire e di esplodere, si libera di molto materiale oscuro, che è letteralmente sparato fuori dalla stella per decine di migliaia di anni prima dell’esplosione finale. Ricordiamo che le stelle hanno cicli di vita che possono raggiungere anche i dieci miliardi di anni. A mano a mano che il lampo di dell’esplosione correva nello spazio circostante, la luce illuminava, a sua volta, le polveri rilasciate dalla stella, avvolgendola in un guscio luminoso. Questo guscio, ben fotografato dai telescopi sulla Terra e, soprattutto dal telescopio orbitale Hubble, rappresenta a tuttora l’aspetto più interessante per gli scienziati, che cercano di comprendere di quali elementi sia composto. La fine del ciclo vitale di una stella, nell’universo è un momento molto importante per lo sviluppo e l’evoluzione del cosmo, infatti le reazioni nucleari che stanno alla base della vita delle stelle partono dalla combustione dell’ idrogeno (l’elemento più semplice, leggero e diffuso in natura) che, dopo essere stato bruciato, si trasforma in energia e in elementi più pesanti. La fine delle stelle e l’esplosione di tutto quel materiale incandescente significa proiettare nelle oscurità del cosmo materiale che, dopo essersi raffreddato, darà origine a corpi celesti di altro genere. Le scorie per effetto della gravità, si radunano le une attorno alle altre, formando pianeti e, in alcuni casi, persino nuove stelle. E’ questo un ciclo di vita che nell’universo deve essersi già diverse volte, basti pensare che il nostro Sole è una stella di seconda generazione e che ha portato alla formazione di tutto ciò che noi conosciamo. A ogni ciclo vitale le stelle elaborano elementi chimici sempre più complessi. Tutto ciò che esiste nell’universo, alla fine, è la diretta conseguenza della chimica stellare, compresi noi stessi, la nostra vita, i nostri stessi corpi. Per quanto incredibile possa essere l’origine chimica dello sviluppo della vita è scaturita da un fenomeno astronomico simile a quello della stella V 838 Mon: noi siamo fatti di quegli stessi elementi chimici che sono generati dall’esplosione delle stelle. Questo è il motivo fondamentale per cui gli scienziati di tutto il mondo continuano a guardare il cielo con così tanto interesse. Certo i tempi cosmici non ci consentiranno di vedere come andrà a finire questa storia. Ma per noi è già stata una grande fortuna e un privilegio poterne osservare l’inizio così in prima fila, aiutati dalla tecnologia umana che lentamente ma con marcia sicura, ci offre sempre maggiori strumenti per ammirare il grande spettacolo del cosmo. E per comprendere il segreto della nascita della vita.
UN PARTO DURATO 20 MILIONI DI ANNI
Ora sappiamo come si è formato il nostro Sistema solare ma, soprattutto come è nata la Terra. L ’eccezionale scoperta è frutto del lungo lavoro di alcuni geologi della Rutgers University (nello stato americano del New Jersey), guidati dalla caporicercatrice Brigitte Zanda Hewins. Gli scienziati satunitensi sono riusciti a elaborare una teoria soddisfacente in grado di spiegare come e quando è nato il nostri Pianeta. E una storia che affonda le sue radici in un passato remotissimo, circa quattro miliardi di anni e mmezzo fa, e che solo ora, grazie alla collaborazione di molti ricercatori appartenenti a diverse aree scientifiche, sembra avere trovato risposte definitive. La storia della Terra, come dicevamo, ha inizio circa quattro miliardi e mezzo di anni fa. Allora, dove oggi ci sono tutti i pianeti del nostro sistema solare, esisteva soltanto una fitta nube di polvere stellare, i resti dell’esplosione di un’altra stella più antica e grande di quanto non sia il nostro Sole, ovvero di quella che gli astronomi chiamano una supernova. A un certo punto le polveri hanno cominciato ad aggregarsi tra loro, formando dei corpi celesti che daranno origine a dei pianeti ma che ancora non sono formati (chiamati in linguaggio astronomico protopianeti) e una stella in formazione che sarebbe poi diventata il nostro Sole. Questo processo era già conosciuto dalla scienza. La novità assoluta, figlia delle ricerche dell’èquipe diretta dalla dottoressa Brigitte Zanda Hewins, è che il processo per cui dalle polveri interstellari si è passati alla formazione del pianeta fatto e finito è durato circa 20 milioni di anni. I ricercatori statunitensi lo hanno scoperto analizzando campioni radioattivi presenti in alcuni meteoriti: questi elementi (il niobio e lo zirconio) si comportano come una specie di “orologio geologico”. Infatti trovare delle tracce di materiale radioattivo permette, attraverso calcoli precisi, basato sul cosiddetto “tempo di decadimento”, cioè il tempo in cui un materiale perde la sua radioattività, di fornire una datazione attendibile circa l’età del reperto. In questo modo lo studio degli asteroidi permette di dare una risposta anche ai grandi temi che riguardano la nascita del nostro Pianeta. Infatti fino a oggi si pensava che per “costruire” un pianeta ci volesse molto più tempo almeno 50 milioni di anni. Grazie a questa ricerca, invece, meno della metà è stato più che sufficiente per portare a termine il lavoro di assemlamento della Terra. Al termine di quewsti 20 milioni di anni il nostro Pianeta era comunque molto diverso da come lo conosciamo oggi: non era certamente il luogo mite e ospitale che abitiamo, ma una palla infuocata, devastato dalle eruzioni vulcaniche e non solo: presumibilmente era costantemente bombordato da una fitta pioggia di asteroidi che deve aver flagellato la superficie di tutti i pianeti nel primo miliardo di anni di vita del Sistema solare. Se, infatti, oggi le collisioni tra corpi celesti di grandi dimensioni sono un evento piuttosto raro, nel primo miliardo di anni di vita della Terra e degli alytri pianeti che ruotano intorno al sole doveva essere l’esatto contrario. Per lo spazio vagava sicuramente molto materiale, soprattutto asteroidi di grandi dimensioni, che non aveva ancora trovato un suo equilibrio gravitazionale e quindi veniva rimpallato qua e là per il cosmo come una palla da biliardo, in attesa di precipitare sul primo pianeta che avesse la sventura di attirarlo entro la sua orbita. Gli effetti di questa attività meteoritica sono ben visibili, al giorno d’oggi, sulla superficie della Luna, così bucherellata e piena di crateri. Al contrario, la Terra presenta rai segni di questo bombardamento: la vegetazione e i movimenti della crosta terrestre, unitamente al fatto che il 70 per cento della superficie della Terra è coperta dal mare, nascondono ai nostri occhi queste cicatrici che risalgono all’infanzia del Sistema solare, quando l’universo era più giovane e pericoloso. La “pioggia” di asteroidi sembra essere finita attorno a 3,9 miliardi di anni fa. ma non prima che la Terra subisse uno degli eventi più catastrifici a cui il pianeta un pianeta possa andare incontro: la collisione con un altro pianeta. Questo deve essere avvenuto attorno a 4 miliardi di anni fa. Si trattava probabilmente di un pianeta delle dimensioni simili a quelle di marte (circa un decimo della terra attuale). Si trattava di un pianeta cosiddetto “pianeta vagante”, che non era riuscito a trovare un suo equilibrio gravitazionale e che ha colpito la Terra come fosse un maglio, facendo schizzare via dal suo cuore rovente una enorme palla di magma che sarebbe poi diventata la Luna. Come possiamo ben vedere la Storia del nostro Sistema solare non è stata nè breve nè lineare. Al contrario molti eventi anche drammatici ne hanno segnato il cammino, dimostrando una volta di più come lo sviluppo di un pianeta e la nascita della vita siano eventi legati anche alla casualità. Eppure l’osservazione del cosmo, oggi, spinge la ricerca in due direzioni: da una parte si cerca di recuperare informazioini utili per comprendere il nostro passato. E la ricerca degli scienziati della Rutgers University ha segnato una tappa fondamentale in questo campo. Dall’altra si cercano (e si trovano) delle testimonianze di come, nell’universo, stia accadendo da altre parti quello che è accaduto alla nostra Terra più di quattro miliardi di anni fa.
UNA “TERRANAVE” DI FERRO FUSO
Per andare al centro della terra.
La ricetta è semplice: si perfora un pozzo e vi si sistema una bomba nucleare o tanto tritolo da creare un terremoto del 7° grado della scala Richter e una frattura di 30 cm di diametro nella crosta terrestre. Quindi vi si rovesciano dentro 100 mila tonnellate di ferro liquido (quando si produce nel mondo in una settimana) incandescente, che contengano al loro interno una sonda con strumenti di rilevamento e di comunicazione con la superficie.
COME GIULIO VERNE
Questa ingegnosa (e molto ardita) “terranave” proseguirà poi da sola, dando vita al primo “viaggio al centro della Terra”. L’idea pubblicata su Nature, è di Davis Stevenson, un noto geologo Usa. “Poichè il ferro è più denso delle rocce fuse del mantello terrestre, tenderebbe a spofondare al loro interno fino a percorrere i 2.900 km di profondità che ci separano dal nucleo” afferma Stevenson.
PIANETA BUCATO
Nessun pericolo che la fenditura possa spaccare la Terra : si dovrebbe richiudere dopo aver fatto passare la massa di ferro fuso. La velocità di avanzamento sarebbe di 16 km all’ora per arrivare in 7 giorni e mezzo nel nucleo terrestre. “L’impresa costerebbe non più di 10 miliardi di euro, molto meno di quanto è stato speso per esplorare lo spazio. Ne vale la pena dice Stevenson.
IL PIANETA PIU’ RARO DELLA GALASSIA
Situato in una zona della via Lattea detta “Braccio di Orione”, è per ora l’unico pianeta noto in grado di ospitare lo sviluppo di una civiltà intelligente.
E’ STATO LOCALIZZATO A 28 MILA ANNI LUCE DAL CENTRO DELLA VIA LATTEA.
Radiazione termica. Un’immagine della Nasa mostra la radiazione termica emessa dal pianeta: le zone blu sono più fredde, le gialle più calde. la temperatura dell’atmosfera è in media di 15°C , ma quella del nucleo arriverebbe a circa 6.200 °C . Sulla sua superficie ci sono segni di attività vulcanica.
Butterato dai crateri. Un’immagine radar di un vulcano alto più di 8 km . Ci sono circa 500 vulcani attivi sulla sua superficie, e alcuni crateri di meteoriti. Il suo posto tra le stelle. Ricostruzione grafica della nostra galassia: il pianeta si trova su un braccio della spirale, detto Braccio di Orione.
Ha un campo magnetico che lo protegge dal vento solare (e dalle sue tempeste) Nella sua atmosfera c’è vapore acqueo. Bagnato dall’acqua. Turbolenze di un corpo nuvoloso, l’acqua è presente anche allo stato liquido e solido. Due satelliti, a 500 km di quota, ne stanno misurando con precisione la gravità. L’avrete a questo punto già capito: il pianeta di cui si parla in questo servizio è la nostra Terra, anche se vista con gli occhi di nuovi ed elaborati strumenti di misura. I bitorzoli della gravità. Le foto del satellite Image, ci hanno mostrato per la prima volta i processi che coinvolgono la magnetosfera terrestre, come le tempeste magnetiche. Sono molto suggestive anche le recenti immagini, una coppia di satelliti che, misurando con precisione la loro distanza reciproca, registrano le minime variazioni di gravità dovute alla presenza di montagne, depressioni, masse d’acqua. Lo scopo è quello di osservare direttamente, in futuro, il movimento delle correnti oceaniche e capire, così, meglio anche i meccanismi del clima.
(vedi Focus n. 135 gennaio 2003)
Il nuovo pianeta
Il telescopio spaziale Hubble ha fotografato le tracce di quello che gli scienziati ritengono il più antico pianeta dell’universo. Dista dalla terra 52 milioni di miliardi di chilometri. Per raggiungerlo occorerebbero milioni di anni.
Hanno scoperto il pianeta più antico dell’universo. E’ situato nella colstellazione dello Scorpione
(a circa 5.600 anni luce dalla Terra) e gli astronomi hanno stimato che la sua età dev’essere almeno 13 miliardi di anni. Per il mondo della scienza si tratta di un primato che difficilmente verrà superato e che domostra ancora una volta di quali disstanze e di quali grandezze temporali si debba parlare quando l’argomento è lo spazio profondo: 5.600 anni luce, infatti, corrispondono a circa 52 milioni di milardi di chilometri. Una cifra talmente alta da risultare praticamente inimmaginabile, che viene espressa in anni luce proprio per comodità di calcolo, sapendo che l’anno luce corrisponde a 9.461 miliardi di chilometri, ovvero alla distanza che un raggio di luce compie in un anno di tragitto, viaggiando a 300 mila chilometri al secondo. L’età di questo pianeta è del tutto eccezionale, specie se prendiamo a paragone la nostra Terra, “vecchia” di soli 5 miliardi di anni. Del pianeta in questione (che deve ancora trovare un nome). La scoperta della sua presenza è il frutto di un complicato calcolo fisico, elaborato sulla base di alcune immagini scattate dal telescopio orbitale Hubble verso un ammasso stellare. Eppure gli scienziati sanno che ci deve essere, perchè le condizioni sono tali per cui è necessario che un pianeta sia proprio lì, nascoso nelle profonde oscurità del cosmo, in attesa di essere svelato da immagini più chiare. Un pianeta di 13 miliardi di anni è sicuramente uno dei corpi celesti più antichi dell’universo. L’età di questi corpi celesti viene stimata sulla base delle immagini che arrivano a Terra: non possiamo, infatti date le enormi distanze effettuare un viaggio fin lì per controllare di persona. Eppure anche se ci dobbiamo arrendere di fronte all’imossibilità di raggiungere corpi celesti così lontani (sono distanze che potrebbero essere coperte dalle nostre navi spaziali solo con milioni di anni di viaggio), niente ci vieta di scoprire i segreti del cosmo attraverso l’osservazione dello spazio. Dalla Terra. O da poco oltre i confini dell’atmosfera terrestre, grazie ai telescopi spaziali tipo per l’appunto, Hubble. Parlando del pianeta appena scoperto Hubble ha fotografato un raggio di luce proveniente da quel corpo celeste. Un raggio di luce che ha viaggiato nello spazio 5.600 anni prima di arrivare a noi ed essere catturato dai sofisticatissimi apparecchi di Hubble, il gioiello di ingegneria umana che da circa 10 anni è il più valido alleato che abbiamo per comprendere le meraviglie dell’universo. Ma in cosa consiste un telescopio apaziale? Il principio è semplice: come noi osserviamo le stelle da telescopi terrestri, si tratta di portare uno di questi strumenti nello spazio e di ricevere le sue immagini da quel privilegiato punto di osservazione. Così Hubble, che è stato progettato per la prima volta nel 1940 e che prende il nome dall’astronomo Edwin Hubble, uno dei padri dell’astronomia moderna, è stato realizzato nel 1990 e messo in orbita grazie a una spedizione delo Space Shuttle Discovery il 25 aprile 1990. Hubble è grande come un autobus e somiglia, per cercare di rendere l’idea della sua forma è un enorme calabrone. La lente attraverso la quale esplora il cosmo è meno grande di quello che si potrebbe pensare “appena” 2,5 metri di diametro. E’ provvisto poi in coda di un’antenna con cui invia le immagini a terra dove vengono raccolte e rielaborate al computer. Il vantaggio di poter contare su un telescopio spaziale, contrariamente a quanto si potrebbe pensare non consiste nell’accorciare le distanze con le stelle. Il telescopio Hubble orbita infatti, a poche centinaia di chilometri sopra la terra: troppo poco per pensare che in questo modo sia sensibilmente oiù vicino ai corpi celesti che deve osservare Hubble, rispetto ai suoi colleghi terrestri, è avvantaggiato per altri motivi. Il più importante è di non subire l’azione deformante della nostra atmosfera, che non è perfettamente trasparente e quindi impedisce una perfetta visibilità anche al più potente dei telescopi al suolo. Comunque sia, la potenza di Hubble è impressionante: è stato calcolato che il suo potere di ingrandimento è tale che potrebbe mettere a fuoco una moneta da un centesimo di euro a 40 chilometri di distanza. Hubble ci ha permesso di allargare i confini dell’universo sconosciuto, andando a scovare galassie lontane ben 15 miliardi di anni luce da noi (si presume che siano i corpi celesti che delimitano i confini dll’universo) e regalandoci immagini che hanno rivoluzionato le nostre conoscenze astronomiche. Oggi uno strumento come il telescopio Hubble viene impiegato soprattutto per dare la caccia ai cosiddetti pianeti extrasolari, ovvero a quei pianeti che non fanno parte del nostro sistema e che rappresentano la più importante scoperta astronomica fatta negli ultimi dieci anni, quella che potrebbe aprire le porte alla scoperta di altre forme di vita nell’universo. Sono occhi artificiali come quelli di Hubble che riusciranno a squarciare l’oscurità dell’universo per cogliere da questi frammenti di verità. Occhi potenti, capaci di guardare lontano fino ai confini dell’universo. La dove, con ogni probabilità, non riusciremo mai a guardare con i nostri.
E’ al via la conquista di Marte
Nei giorni scorsi a San Francisco gli scienziati hanno definitivamente confermato che l’uomo potrà stabilirsi su Marte. Negli stessi giorni il presidente Bush ha riaperto la corsa allo spazio: prima tappa, proprio il Pianeta Rosso.L’uomo è pronto per colonizzare Marte. Gli ultimi dubbi sono stati sciolti e ora, si può proprio dire, è solo una questione di tempo. A sostenere questa posizione, gli scienziati che si sono dati appuntamento a San Francisco per il Congresso internazionale dedicato alla geofisica
(che, ricordiamo dovrebbe occuparsi della fisica della Terra) sono stati interpellati per un parere definitivo circa l’avventura che dovrebbe portare l’uomo su un altro pianeta? il motivo è tanto semplice quanto suggestivo: gli astronomi, i fisici e gli ingegneri hanno ormai sviluppato le tecnologie necessarie per affrontare il viaggio, pari a circa 60 milioni di chilometri, per poter condurre un equipaggio umano fino sul Pianeta Rosso. Ma solo esperti di geofisica e di climatologia potevano dire se, su Marte, si possono trovare condizioni ambientali sufficientementi confortevoli da permettere la nascita di un insediamento umano. Adesso le nostre conoscenze su Marte sono molte approfondite grazie al lavoro incessante di numerose sonde che stanno monitorando da anni l’atmosfera e la superficie del Pianeta Rosso. In particolare, oggi, ci si avvale delle informazioni che giungono quotidianamente dalla sonda statunitense Mars Odyssey, in orbita intorno a Marte da ben due anni, che non solo sorveglia fotograficamente la superficie del pianeta, ma tiene sotto controllo una serie di parametri invisibili altrettanto importanti. Uno su tutti: la radioattività ambientale. Più che il freddo, la scarsa gravità, le tempeste di sabbia, le preoccupazioni degli esperti sulle possibilità di sopravvivenza di un insediamento umano su Marte erano rivolte, infatti, alle radiazioni cosmiche. Sulla Terra queste radiazioni sono infatti quasi totalmente schermate dall’azione del campo magnetico terrestre, che le respinge come una corazza invisibile. Su Marte che è molto più piccolo della Terra, questo campo magnetico è più debole e, quindi, meno efficace. Oggi le nuove scoperte e le ultime teorie stanno ridimensionando il pericolo costituito dai raggi cosmici sul suolo marziano. Secondo gli esperti radunati a San Francisco, infatti l’esposizione alle radiazioni, sulla superficie di quel pianeta, non sarebbe poi eccessiva: pur essendo molto superiore a quella terrestre è ancora al di sotto del limite massimo tollerabile senza subire danni permanenti. L’importante è, secondo gli esperti, che una volta giunti su Marte si riescano a trovare le risorse minerali per costruire rifugi a prova di raggi cosmici.
Un’altra scoperta importante annunciata a San Francisco è che Marte starebbe uscendo da un periodo di glaciazione, come accadde alla Terra 100 mila anni fa, il clima marziano starebbe proprio in questi secoli uscendo da un’era di freddo intenso. Questo potrebbe significare che, nel tempo, le enormi masse di acqua ghiacciata che si trovano sulla superficie del Pianeta Rosso porebbero tornare a liquefarsi, mostrando un pianeta non competamente roccioso e desero come oggi ma assai più viace e simile al nostro. Si tatta di ipotesi, certo, ma che se venissero effettivamente confermate potrebbero una volta in più ribadire come una colonizzazione di Marte sia non solo possibile ma anche abbastanza vicina nel tempo. Resta una domanda a cui dare una risposta. Perchè l’uomo sembra così interessato a mettere piede sul Pianeta Rosso? Si tratta infatti di un viaggio di almeno tre anni con dei costi altissimi e grande pericolosità. Ebbene, la risposta può venire solo guardando il nostro passato. Nel 1492 Cristoforo Colombo pertì con tre caravelle verso l’ignoto di un oceano allora sconosciuto, per soddisfare sia la propria sete di avventura e di scoperta così come le brame di ricchezza dei reali di Spagna. Ebbene, anche la conquista e la conolizzazione di un nuovo pianeta potrebbe avere lo stesso tipo di motivazioni: l’uomo è per sua stessa natura sempre rivolto al superamento dei propri limiti, e animato da una sete di conoscenza che ne ha permesso il continuo progresso scientifico e tecnologico. Marte potrebbe allora, la sede staccata di un’aminità che si sta espandendo fin troppo rapidamente sul pianeta che noi oggi stiamo abitando. Esattamente come nei primi anni dell’800 i pionieri americani si spostavano verso il grande Ovest alla ricerca di terra e fortuna, così altri esseri umani nel futuro potrebbero decidere di sfruttare le ricchezze vergini (e ancora in gran parte sconosciute) del Pianeta Rosso. Si tratta, oggi, di mettere la bandiera dell’umanità su quel suolo, ed esaminare la fattibilità di un progetto tanto ambizioso. E’ ancora presto per dire quali ricchezze possa ospitare la fredda e rocciosa superficie marziana: saranno le risposte di sonde e robot che si realizzeranno entro la fine del 2004 a dare le prime significative risposte in questo senso. Ciò che appare chiaro agli scienziati, tuttavia, è che le riserve d’acqua presenti sul pianeta, unitamente alle non impossibili condizioni di vita, siano due elementi estremamente favorevoli per un qualsiasi progetto di colonizzazione.
Recentemente il presidente americano George Bush ha ribadito come, se dovesse essere rieletto alla carica, darebbe un impulso decisivo per la conquista dello spazio da parte dell’America. Questo significa che anche i grandi della Terra hanno compreso come il futuro dell’umanita non possa prescindere dai viaggi interplanetari.
Vale 10 miliardi di trilioni di trilioni di carati
Quella stella è un gioiello
Il diamante più grande dell’universo sta a 50 anni luce da noi
Bmp37093 è una “nana bianca” della costellazione del Centauro e il suo cuore di carbonio, del diametro di 4 mila km, ha assunto la forma cristallina della pietra più desiderata sulla Terra
La madre di tutti i diamanti è una stella, o meglio quel che resta di una stella. L’hanno ribattezzata Lucy, dalla famosa canzone dei Beatles Lucy in the sky with diamonds. Sui libri di astronomia il suo nome è però bmp37093, nella costellazione del Centauro, a 50 anni luce dalla Terra. Gli astronomi dell’Harvard-Smithsonian Center of Astrophysics hanno scoperto che sotto il sottile strato di gas che la circonda c’è un diamante: un gioiellino da 10 miliardi di trilioni di trilioni (uno, seguito da 34 zeri) di carati, quando basta per far apparire i 530 carati della Stella d’Africa, il più grande diamante del mondo conservato tra i gioielli della Corona britannica, come una pulce. Nessuno riuscirebbe a permettersela. L’astronomo a capo del team che è riuscito a provare per la prima volta una teoria avanzata più di 30 anni fa. Ma cosa ha trasformato una stella in un gigantesco diamante? Lucy era una stella delle dimensioni del nostro Sole e come lui ha brillato per 8-10 miliardi di anni, quando ha bruciato tutto l’idrogeno e l’elio che le consentivano di emettere energia, ha iniziato a raffreddarsi e il suo cuore è collassato: il carbonio al suo interno si è compattato fino ad assumere la struttura di un diamante. E’ diventata così densa che un cucchiaio da tè di Lucy peserebbe mezza tonnellata.
Non male per quello che si definisce residuo stellare. E, come lei, potrebbero essercene altre.
Nessun commento:
Posta un commento