“I Maya siamo noi”
Scalzo agile e veloce, un ragazzino dai capelli lunghi e neri procede speditamente nella foresta tropicale. Camminando su un tronco scivoloso attraversa un fiumicattolo. Ne guada poi un secondo, saltando da un sasso all’altro. La tunica bianca che arriva a metà del polpaccio accompagna ogni suo movimento. . A una ventina di metri di distanza, due occidentali lo seguono, arrancando e scivolando sulle suole spesse degli scarponi da trekking. Il ragazzo si ferma dove il fiume forma una piscina naturale. E quando i due arrivano ansimando lui ride e dice in spagnolo: “Venite! Qui non ci sono coccodrilli”. Si toglie la tunica e si tuffa.
Rifugio nella foresta.
Il piccolo elfo appartiene alla tribù dei Lacandoni: gli ultimi eredi dei Maya. Le loro origini si perdono nei secoli, e si confondono fra i sentieri intricati della foresta. C’è chi sostiene che siano i diretti discendenti degli antichi sovrani di Palenque, la più occidentale delle grandi città maya, che raggiunse il suo massimo splendore fra il VII e l’VIII secolo dopo Cristo. O che siano i pronimoti degli antichi abitanti di Bonampak e Yaxchilàan, situate poco più a est, non lontano dal fiume Usmacinta che oggi segna il confine tra Messico e Guatemala. “E’ possibile, ma nessuno lo sa con certezza”.
“Per confermarlo bisognerebbe affrontare il loro Dna con quello dei resti trovati melle tombe”.
Le indagini storiche indicano che, quando gli spagnoli arrivarono in Messico, alcune popolazioni maya preferirono evitare il confronto e si ritirarono nella foresta. Via via che i conquistadores procedevano, i Lacandoni si rifugiarono sempre più verso l’interno, fin dove gli europei non osarono seguirli, perchè spaventati dalla malaria e poco attratti da un gruppo di fuggiaschi che doveva aver portato con sè ben pochi tesori. A confermare almeno in parte questa ricostruzione contribuirono le tradizioni dei Lacandoni di oggi, sorprendentemente simili a quelle dei Maya del periodo classico (250-900 d.C.).
I Lacandoni chiamano se stessi Halach uinik, “i Veri uomini”: è la stessa espressione usata dalle caste sacerdotali maya, 1.500 anni fa.
Attento ai sogni.
Lo sciamanesimo e la divinazione hanno certamente origine nella spiritualità dei Maya.
Come i loro antenati, i Lacandoni leggono il futuro nei sogni. Il destino predetto però può essere modificato dagli uomini e per questo l’interpretazione dei sogni è considerata cruciale dal popolo della foresta. Non a caso i Lacandoni si augurano la buonanotte dicendo ki’ uenen tech (“dormi bene”), e poi ki’ i’ uilil (“fai attenzione a ciò che vedrai”). E al mattino, gli stranieri di passaggio nei loro villaggi sentono rivolgersi insistentemente sempre la stessa domanda: “Che cosa hai sognati”.
Capire i sogni, però, è un compito difficile. Perchè, come ha osservato Robert Bruce, studioso, studioso che ha vissuto per anni con questo popolo, “per i Lacandoni il sogno è una specie di bugia.
Predice il futuro, ma non dice sempre le cose in modo chiaro”. Spesso, anzi, va interpretato al contrario: per esempio, sognare molto mais indica che il raccolto sarà scarso. Mentre, a seconda del contesto, sognare un animale piccolo può voler dire che se ne incontrerà uno molto grande, oppure che nascerà un bambino. L’acqua invece indica che qualcuno morirà, perchè corrisponde alle lacrime dei parenti e al fiume che le anime devono attraversare per raggiungere nel mondo sottomarino, dove verranno giudicate da Sukunkyium, il dio del regno sommerso. Infine, poichè per i Lacandoni (così come per i Maya) questo ciclo del mondo è iniziato e finirà con un’eclisse, anche sognare il sole oscurato predice un lutto: per chi morirà, sarà la fine del mondo degli uomoni.
L’incenso diventa tortilla.
Le somiglianze fra i Lacandoni e i Maya classici sono ancora più evidenti nella religione e nei riti sacri. Con poche differenze, il mito dell’origine è rimasto lo stesso. K’akoch (Hunab ku per i Maya) è il creatore del mondo, del sole e del bak niktè, il fiore rosso e profumato da cui sono nati tutti gli altri dèi. Hachayum, il dio che i Maya chiamano Itzamnà, ha poi reso ospitale la terra ricoprendola interamente di foresta e popolandola di animali. Infine con l’aiuto della moglie Xka ‘lr’ox (Ixchel per i Maya), ha creato gli uomini e le donne.
I lacandoni cercano la benevolenza di Hachayum nelle cerimonie sacre. “I sacrifici umani dei Maya sono stati sostituiti dall’offerta al dio di fantocci ”. Ma è rimasta intatta l’abitudine di bruciare incenso (che salendo in cielo si trasforma in tortilla di mais per gli dèi) e di bere il balchè, una bevanda fermentata a base di miele, zucchero e corteccia, preparata all’interno di canoe portate in secca, e usate solo per questo scopo. Alcune cerimonie in onore del dio si svolgono ancora oggi all’interno delle antiche città maya. I Lacandoni credono che la dimora terrena di Hachayum si trovi a Yaxchilàn, fra quelle mure cui gli archeologi occidentali hanno dato il nome freddo di “tempio 33” .
Il dio della pioggia dei Maya (Chac) è per i Lacandoni Mensabak. Il suo nome significa “colui che fa la polvere”. Il dio infatti fabbrica una polvere di colore scura e la consegna ai suoi 4 assistenti (gli Hahanak’uh alzandosi la tunica e mostrando loro il posteriore. In risposta, gli Hahanak’uh gli scagliano contro le teste d’ascia in pietra, che colpendo il suolo, causano tuoni e fulmini. Il tempo e la storia hanno introdotto nella religione anche divinità nuove. Akyanthò, è il dio degli stranieri e del commercio, ha la pelle bianca, indossa un cappello e porta con sè una pistola. Impermeabili ai tentativi fatti per cristianizzarli, i Lacandoni adorano però Hesuklistos (Gesù Cristo), divinità minore figlia di Akyanthò.
Casa senza pareti.
Questo è il capolavoro dei Maya
E' in Messico l'antica città dominata da un incredibile piramide
Chickèn Itzà, i Messico, uno dei siti archeologici più spettacolari e meglio conservati al mondo, dominato dalla straordinaria piramide di kukulcàn.
Un riconoscimento più che meritato per i resti di questa antica città, ancora in ottimo stato dopo oltre dieci secoli, che testimonia lo splendore e la maestosità del popolo Maya che l'ha edificata.
Ma chi erano i Maya?
Le origini della grande civiltà precolombiana, cioè prima della scoperta dell'America nel 1492 da Cristoforo Colombo, risalgono al 1500 a .C., quando occupava parte del Messico, del Guatemala, del Belize e dell'Honduras. Aveva un'economia basata soprattutto sull'agricoltura, la tessitura del cotone e la produzione di ceramica. Intorno al 900 d.C, nel periodo di massimo splendore di questa civiltà, alcune popolazioni emigrate nello Yucantàn, la parte sud del Messico, e governate dalla dinastia degli Itzà, costruirono Chickèn Itzà, applicando tutte le conoscenze tecniche, idriche e astronomiche di cui i Maya erano mastri (furono loro a inventare per esempio, il calendario). Con l'aiuto degli schiavi e dei prigionieri di guerra tagliarono e modellarono le pietre, le incastrarono una sull'altra, scolpirono il legno per le decorazioni e i tetti: il risultato finale fu una città apprezzata in tutto il mondo latino per la bellezza e per la maestosità dei suoi edifici.
Il signore di questo popolo era Kukulcàn Itzà, che governava la città con l'aiuto dei nobili e dei sacerdoti e che si era visto tramandare il potere dal padre.
Non era nè un re nè un imperatore, anzi: seppe seppe sempre tenersi in disparte, lasciando ai suoi uomini il compito di emanare le leggi e di farle rispettare. Lui preferiva conquistarsi la fiducia del popolo puntando sulla spiritualità: introdusse il culto del serpente piumato Quetzalòatl, una figura mitologica chiamata in suo onore dai Maya proprio come lui Kukulcàn, e che veniva venerato con molti sacrifici umani per incrementare i bottini di guerra e consentire ai guerrieri di proseguire con successo l'espansione dei territori. Fu lui a volere che per il culto del serpente piumato fosse edificata quella che poi è diventata il "pezzo forte" di Chickèn Itzà: un imponente piramide a nove piani, alta 17 metri , sormontata da un tempio a due vani circondato da una galleria e un portico il cui ingresso principale è segnato da due colonne a forma proprio di serpente. All'interno, quasi si trattasse di una scatola magica, c'è un altro tempio, dove si erge un trono a forma di giaguaro.
Ci vollero tanti anni e il sangue di molti uomini per portare a termine questo monumento sacro, che dietro la bellezza e il rigore esteriore nasconde una precisione altamente scientifica. Chiamata in epoca successiva dai conquistatori spagnoli El Castillo, il castello, la piramide era strettamente legata alla simbologia astronomica: i gradini delle quattro facciate sono complessivamente trecentosessantaquattro e sommati alla piattaforma superiore fanno 365 come i giorni dell'anno solare; inoltre, ogni lato ha 52 pannelli, tanti quanto gli anni del secolo secondo i Maya, mentre i nove piani divisi dalle scalinate orginano 18 elementi corrispondenti ai mesi del loro calendario.
Ma il prezioso monumento, oltre a essere un luogo di culto del dio serpente e la residenza dei sacerdoti astronomi che davano consigli ai cittadini, fungeva anche da gigantesca meridiana indispensabile per le necessità pratiche della popolazione: per i contadini serviva a stabilire quand'era il momento opportuno per seminare e sfruttare al meglio i periodi di pioggia sperando in raccolti abbondanti, mentre i naviganti ne ottenevano informazioni sulle fasi lunari e sulle eclissi, essenziali per partire in mare con maggior tranquillità ed evitare così burrasche e tempeste. Qui, sulla piramide che è la principale attrazione di tutto l Messico, durante i giorni di equinozio della primavera e dell'autunno si verifica un fenomeno unico e davvero affascinante: la particolare posizione del sole in quelle due giornate dell'anno forma uno straordinario gioco di ombre che, sulla scalinata principale del tempio, delinea il profilo di un gigantesco serpente piumato disteso dalla cima alla base della piramide.
Il grande campo di morte
Risalire i novantuno ripidissimi scalini di ogni facciata è stata per anni una consuetudine, quasi un rito per ogni turista, un modo anche per ammirare dall'alto il panorama davvero unico di tutto il sito. Purtroppo, però, da un anno e mezzo non si può più salire in cima percorrendo le quattro scalinate, giudicate troppo pericolose dopo che alcuni visitatori si erano feriti cadendo e una donna era addirittura morta. Per chissà quanto tempo ci si dovrà accontentare, perciò di osservare il monumento dal basso.
Tutt'attorno, a fare da ineguagliabile cornice alla piramide, vi sono trenta costruzioni che ancora oggi si possono ammirare da vicino. Appena si entra nel sito archeologico appare in tutta la sua marstosità il Juego della Pelota
, un campo da gioco immenso, lungo 170 metri , largo 50 e delimitato da due miri laterali quasi otto metri, ornati da una fascia a forma di serpente con bassorilievi rappresentanti scene di sacrificio. Sembra quasi di rivedere le due squadre di giocatori colpire la pesante palla di caucciù soltanto con i gomiti, le ginocchia e i fianchi, come imponevano le regole, per lanciarla contro bersagli alti sette metri: sembra quasi di risentire le grida disperate dei giocatori sconfitti, che al termine della partita venivano decapitati e sacrificati agli dèi prima che la loro testa fosse esposta sullo Tzompantli, il cosiddetto muro dei crani, costruito lì accanto: la loro colpa era non soltanto di avere perso la sfida, ma di avare infranto il culto del dio Sole, che deve rinascere ogni giorno abbandonando le tenebre.
Infatti, secondo i Maya, il campo da gioco rappresentava la Terra mentre la palla simboleggiava l'astro: quindi, lasciando cadere il pallone il giocatore impediva al sole di sorgere nuovamente e per questo andava punito e sacrificato.
Fu abbandonata nel Cinquecento
Ma tra i tanti monumenti da visitare attorno alla piramide c'è anche il Cenote Sagrado, un’imponente pozzo naturale di circa 60 metri di diametro e di 35 di profondità; il Complesso delle mille colonne, rovine di immensi saloni; il Tempio dei guerrieri che, scolpiti nella pietra, ne sostengono la struttura; e, infine, la piazza del Mercato.
Proseguendo verso sud-ovest, la costruzione più significativa è il Caracol, un osservatorio a due piani decorato sempre con serpenti piumati e teste di guerriero, a pianta circolare con un diametro di 11 metri , al cui interno si trova una scala a chiocciola (in sapagnolo si dice proprio "caracol") che dà su sette strettissime finestre, orientate in modo da poter determinare i solsrìtizi e gli equinozi dell'anno. Il declino di Chickèn Itzà cominciò nel 1200 dopo cristo, con una guerra civile che decimò parte della popolazione, e proseguì nel Quattrocento tra uragani e pestilenze. L'arrivo in Messico dei conquistatori spagnoli, nel 1532, ne completò la rovina. La città fu abbandonata per diversi secoli fino a quando alcuni esploratori, al ritorno dai loro viaggio nello Yucatàn, cominciarono a raccontare di avere visto i resti di una città meravigliosa. Fu così che nei primi anni del Novecento lo statunitense Edward Herbert Thompson, professore dell'Università di Harvard e console americano nello Yucatàn, con un atto senza precedenti acquistò la zona in cui si trovano oggi le rovine: cominciò gli scavi e, dragando il pozzo, cioè il Cenote Sagrado, emersero numerosi reperti: gioielli, ossa, lenti astronomiche e molti altri oggetti che aiutarono molto a comprendere meglio non solo l'importanza di Chickèn Itzà ma anche tutta la civiltà Maya. Ci vollero anni e anni di lavoro per riportare alla luce i monumenti più importanti della città, ma già all'inizio, attorno al 1920, lo spettacolo che apparve ai visitatori fu stupefacente. E si può già dire che il futuro riserverà altre sorprese: secondo gli archeologi del governo federale messicano, che nel 1977 riacquistarono finalmente tutta l'area, ci sono almeno altri cento monumenti ancora nascosti dalla foresta, da fare tornare, prima o poi alla luce.
Per raggiungere Chickèn Itzà ci sono varie possibilità. Si arriva in aereo, con un volo charter diretto o con scalo a Madrid o a Miami, all'aeroporto internazionale di cancùn, una delle località turistiche più frequentate del Messico, da cui Chickèn Itzà dista 200 chilometri , tanti quanti da Merida, la capitale dello Yucatàn, un altro punti partenza strategico, quindi con un pullman di linea, con una gita organizzata o con un auto a noleggio si raggiunge il sito. Chi vuole fermarsi qualche giorno può soggiornare in alcuni alberghi proprio a un passo dal sito di Chickèn Itzà con vista addirittura sui resti archeologici. E' un modo suggestivo per vivere l'emozione del paese Maya ventiquattro ore su ventiquattro, anche quando all'imbrunire la piramide di Kukullcàn, così come il Caracol, il campo di pelota e tutte le altre meraviglie del sito, colpiti dai raggi infuocati del sole, assumono sembianze ancora più magiche.
Gli spagnoli’ Liberarono i maya
Henry Kamen, storico americano così innamorato della Spagna da essersi stabilito a Barcellona, è uno dei maggiori specialisti della storia del paese iberico nell’età moderna. Una decina d’anni fa fece scalpore nel mondo accademico un suo saggio sull’Inquisizione spagnola, in cui con grande sincerità ammetteva che i primi studi sull’argomento erano viziati da un pregiudizio che non aveva poi retto alla prova dei fatti, e ridisegnava un’immagine del tribunale ecclesiastico molto più equilibrata e “garantista” di quel che vuole la leggenda nera. Nell’ultimo libro, da poco tradotto in Italia da Utet, Il Duca d’Alba, tratteggia il profilo di quello che fu chiamato il «macellaio delle Fiandre» per la durezza con cui represse le ribellioni protestanti senza sconti ma anche senza eccessi, cercando di comprendere le ragioni per cui un uomo amante della pace e dell’ordine può trasformarsi in uno spietato carnefice, quando un ideale si trasforma in cieca ideologia.
Ma l’opera in cui si sintetizza le sue ricerche è Empire (2003), ricostruzione dell’epopea della Spagna imperiale, dove si domanda come un popolo relativamente piccolo, povero e marginale sia riuscito a conquistare un impero “su cui non tramonta mai il sole”. E scopre che la chiave del successo spagnolo fu la capacità di coinvolgere le forze più dinamiche dell’epoca, dai banchieri genovesi ai tecnici tedeschi ai commercianti olandesi, in un progetto di respiro universale. Aperto anche ai popoli del “Nuovo mondo”: «Gli spagnoli non hanno conquistato l’impero azteco e quello inca per la propria superiorità militare, o perché questi fossero già corrotti – conferma a Tempi – ma perché vennero appoggiati dalla maggioranza delle popolazioni autoctone, che videro nel loro arrivo la possibilità di sottrarsi a una dura tirannia».
Ha più di mille anni
Chichén Itzà (Messico). Questi sono due suggestivi tesori di Chichén Itzà, la città costruita dai Maya intorno al X secolo dopo Cristo, clasasificatosi al quinto posto tra le sette, nuove “Meraviglie del mondo”. A sinistra, la statua di Chac Mool, divinità guerriera Maya; a destra, la piramide di Kukulcàn, il principale gioiello della città. Alta 17 metri e sormontata da un tempio, su ognuna delle quattro facciate ha una snalinata da 91 gradini, per complessivi 364 gradini: sommati alla piattaforma superiore fanno 365 scalini, come l’anno solare.
Questo è il capolavoro dei Maya
È in Messico l’antica città dominata da un’incredibile piramide
Chichén Itzà (Messico).
Chichén Itzà. In Messico, è uno dei siti archeologici più spettacolari e meglio conservati al mondo, dominato dalla straordinaria piramide di Kukulcàn, è la quinta tappa del nostro viaggio (dopo La Muraglia Cinese , Petra, Il Cristo Redentore e Machu Picchu, di cui ci siamo occupati nelle puntate precedenti) che ci porta alla scoperta di quei luoghi che sono stati scelti da un referendum planetario via Internet come le sette, “Meraviglie del mondo”. Nei referendum, infatti, il sito archeologico di Chichén Itzà si è classificato al quinto posto. Un riconoscimento più che meritato per i resti di questa antica città, ancora in ottimo stato dopo oltre dieci secoli, che testimonia lo splendore e la maestosità del popolo Maya che l’ha edificata. Ma chi erano i Maya? Le origini della grande civiltà precolombiana, cioè prima della scoperta dell’America nel 1492 di Cristoforo Colombo, risalgono al 1500 avanti Cristo, quando occupava parte del Messico, del Guatemala, del Belize e dell’Honduras. Aveva un’economia basata soprattutto sull’agricoltura, la tessitura del cotone e la produzione di ceramica. Intorno al 900 dopo Cristo, nel periodo di massimo splendore di questa civiltà, alcune popolazioni emigrate nello Yucatàn, la parte sud del Messico, e governata dalla dinastia degli Itzà, costruirono Chichén Itzà, applicando tutte le importanti conoscenze tecniche, idriche e astronomiche di cui i Maya erano maestri (furono loro a inventare, per esempio, il calendario). Con l’aiuto degli schiavi e dei prigionieri di guerra tagliarono e modellarono le pietre, le incastrarono una sull’altra, scolpirono il legno per le decorazioni e i tetti: il risultato finale fu una città apprezzata in tutto il mondo latino per la bellezza e la maestosità dei suoi edifici.
Il signore di questo popolo era Kukulcàn Itzà, che governava la città con l’aiuto dei nobili e dei sacerdoti e che si era visto tramandare il potere dal padre. Non era né un re né un imperatore, anzi: seppe sempre tenersi in disparte, lasciando ai suoi uomini il compito di emanare le leggi e farle rispettare. Lui preferiva conquistarsi la fiducia del popolo puntando sulla spiritualità: introdusse il culto del serpente piumato Quetzalcòatl, una figura mitologica chiamata in suo onore dai Maya proprio come lui, Kukulcàn, e che veniva venerato con molti sacrifici umani per incrementare i bottini di guerra e consentire di proseguire con successo l’espansione dei territori. Fu lui a volere che per il culto del serpente piumato fosse edificata quella che poi è diventata il “pezzo forte” di Chichén Itzà: un’imponente piramide a nove piani, alta 17 metri , sormontata da un tempio a due vani circondata da una galleria e da un portico il cui ingresso principale è segnata da due colonne a forma proprio di serpente. All’interno, quasi si trattasse di una scatola magica, c’è un altro tempio, dove si erge un trono a forma di guaguaro. Ci vollero tanti anni e il sangue di molti uomini per portare a termine questo monumento sacro, che dietro le bellezze e il rigore esteriore nasconde una precisione altamente scientifica. Chiamata in epoca successiva dai conquistatori spagnoli El Castillo, il castello, la piramide era strettamente legata alla simbologia astronomica: i gradini delle quattro facciate sono complessivamente trecentosessantaquatrtro e sommati alla piattaforma superiore fanno trecentosessantacinque come i giorni dell’anno solare; inoltre, ogni lato ha 52 pannelli, tanti quanti gli anni del secolo secondo i Maya, mentre i nove piani divisi dalle scalinate originano 18 elementi corrispondenti ai mesi del loro calendario. Ma il prezioso monumento, oltre a essere un luogo di culto del dio serpente e la residenza dei sacerdoti astronomi che davano consigli ai cittadini, fungeva anche da gigantesca meridiana indispensabile per le necessità pratiche della popolazione: per i cittadini serviva a stabilire quand’era il momento opportuno per seminare e sfruttare al meglio i periodi di pioggia sperando in raccolti abbondanti, mentre i naviganti ne ottenevano informazioni sulle fasi lunari e sulle eclissi, essenziale per partire in mare con maggiore tranquillità ed avitare così burrasche e tempeste. Qui, sulla piramide che è la principale attrazione di tutto il Messico, durante i giorni di equinozio della primavera e dell’autunno si verifica un fenomeno unico e davvero affascinante: la particolare posizione del sole in quelle due giornate dell’anno forma uno straordinario gioco di ombre che, sulla scalinata principale del tempio, delinea il profilo di un gigantesco serpente piumato disteso dalla cima alla base della piramide.
Un grande campo di gioco e di morte
Risalire i novantuno scalini su ogni facciata è stata per anni consuetudine, quasi un rito per ogni turista, un modo anche per ammirare dall’alto il panorama davvero unico di tutto il sito. Purtroppo, però,da un anno e mezzo non si può più salire in cima percorrendo le quattro scalinate, giudicate troppo pericolose dopo che alcuni visitatori si erano feriti cadendo e una donna era addirittura morta.
Per chissà quanto tempo ci si dovrà accontentare, perciò di osservare il monumento dal basso.
Tutt’attorno, a fare da ineguagliabile cornice alla piramide, vi sono trenta costruzioni che ancora oggi si possono ammirare da vicino. Appena si entra nel sito archeologico appare in tutta la maestosità il Juego de la Pelota , un campo da gioco immenso, lungo 170 metri , largo 50 e delimitato da due muri laterali alti quasi otto metri, ornati da una fascia a forma di serpente con bassorilievi rappresentanti scene di sacrificio.
Sembra quasi di rivedere le due squadre di giocatori colpire la pesante palla di caucciù soltanto con i gomiti, le ginocchia e i fianchi, come imponeva le regole, per lanciarla contro bersagli alti sette metri; sembra quasi di risentire le grida disperate dei giocatori sconfitti, che al temine della partita venivano decapitati e sacrificati agli dèi prima che la loro testa fosse esposta sullo Tzompantli, il cosiddetto muro dei crani, costruito lì accanto: la loro colpa non era soltanto di avere perso la sfida, ma di avere infranto il culto del dio Sole, che deve rinascere ogni giorno abbandonando le tenebre. Infatti, secondo i Maya, il campo da gioco rappresentava la Terra mentre la palla simboleggiava l’Astro: quindi, lasciando cadere il pallone il giocatore impediva al sole di sorgere nuovamente e per questo andava punito e sacrificato.
Fu abbandonata nel Cinquecento
Ma tra i tanti monumenti da visitare attorno alla piramide c’è anche il Cenote Sagrado, un imponente pozzo naturale di circa 60 metri di diametro e di 35 di profondità; il Complesso delle mille colonne, rovine di immensi saloni; il Tempio dei guerrieri che, scolpiti nella pietra, ne sostengono la struttura; e, infine, la piazza del Mercato. Proseguendo verso sud-ovest, la costruzione più significativa è il Caracol, un osservatorio a due piani decorato sempre con serpenti piumati e teste di guerriero, a pianta circolare con un diametro di 11 metri , al cui interno si trova una scala a chiocciola (in spagnolo si dice proprio “caracol”) che dà su sette strettissime finestre, orientate in modo da poter determinare i solstizi e gli equinozi dell’anno.
Il declino di Chickén Itzà cominciò nel 1200 dopo Cristo, con una guerra civile che decimò parte della popolazione, e proseguì nel Quattrocento tra uragani e pestilenze. L’arrivo in Messico dei conquistatori spagnoli, nel 1532, ne completò la rovina. La città fu abbandonata per diversi secoli fino a quando alcuni esploratori, al ritorno dai loro viaggi nello Yiucatàn, cominciarono a raccontare di avere visto i resti di una città meravigliosa. Fu così che nel primi anni del Novecento lo statunitense Edward Herbert Thompson, professore dell’Università di Harvard e console americano nello Yucatàn, con un atto senza precedenti acquistò la zona in cui si trovavano le rovine: cominciò gli scavi e, dragando il pozzo, cioè il Cenote Sagrado, emersero numerosi reperti: gioielli, ossa, lenti astronomiche e molti altri oggetti che aiutarono a comprendere meglio non solo l’importanza di Chichén Itzà ma anche di tutta la civiltà Maya. Ci vollero anni e anni di lavoro per riportare alla luce i monumenti più importanti della città, ma già all’inizio, attorno al 1920, lo spettacolo che apparve ai visitatori fu stupefacente. E si può già dire che il futuro riserverà altre sorprese: secondo gli archeologi del governo federale messicano, che nel 1977 riacquistarono finalmente tutta l’area, ci sono almeno altri cento monumenti tuttora nascosti dalla foresta, da fare tornare, prima o poi alla luce.
Per raggiungere Chichén Itzà ci sono varie possibilità. Si arriva in aereo, con un volo charter diretto o con scalo a Madrid o a Miami, all’aeroporto internazionale di Cancùn, una delle località turistiche più frequentate del Messico, da cui Chichén Itzà dista 200 chilometri , tanti quanti da Merida, la capitale dello Yucatàn, un altyro punto di partenza strategico, quindi con un pullman di linea, con una gita organizzata o con un’auto a noleggio si raggiunge il sito. Chi vuole fermarsi qualche giorno può soggiornare in alcuni alberghi proprio a un passo dal sito di Chichén Itzà con vista addirittura sui resti archeologici.
È un modo suggestivo per vivere l’emozione del paese Maya ventiquattro ore su ventiquattro, anche quando all’imbrunire la piramide di Kukulcàn, così come il Caracol, il campo di pelota e tutte le altre meraviglie del sito, colpiti dai raggi infuocati del sole, assumono sembianze ancora più magiche.
Il tempio dei guerrieri Chichén Itzà (Messico). Questo è il “Tempio dei guerrieri”, uno dei complessi più ammirati della città Maya di Chichén Itzà. È composta da un edificio centrale verso il quale, attraverso la lunga scalinata, salivano le vittime sacrificali; una volta giunte sulla sommità, veniva loro strappato il cuore, che poi i sacerdoti depositavano alla base del tempio in onore degli dèi.
Le alte colonne che circondavano tutta la struttura sono decorate con artistici bassorilievi, che rappresentano scene di guerra.
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