martedì 21 agosto 2012

AMAZZONIA

 

Amazzonia: le aree protette sono quasi il 50%
Quasi la metà della foresta amazzonica, circa il 43,9%, è protetta. Questo è quanto affermano dall’Imazon, L’Istituto amazzonico che vigila il polmone verde della terra. Sotto la tutela di oltre 2 milioni di kmq, 173 etnie, 30.000 specie botaniche, 397 varietà di mammiferi, 387 di rettili e più di 9.000 specie di pesci d’acqua dolce.
In canoa sull’Orinoco, seguendo il viaggio del naturalista tedesco Alexander von Humboldt, partito nel 1800 alla ricerca di un fiume leggendario nella selvaggia terra degli indios amazzonici. Tra specie animali e vegetali mai viste prima e popolazioni ancora oggi poco conosciute, come gli Yanomami. 
Quasi 1/3 delle foreste tropicali si trova in Brasile. Ma l’estensione dell’Amazzonia sta diminuendo rapidamente, e si stima che quasi 1/5 del territorio sia stato deforestato (una superficie maggiore di quella,della Francia).
Strada confortevole
Nel 1960 il governo brasiliano aveva costruito un’autostrada per agevolare lo sviluppo.
Nel 1975 la regione era ancora intatta, ma nel, 2001 la deforestazione, soprattutto a scopo agricolo, è diventata evidente.
Il viaggio di von Humboldt alla ricerca di un fiume leggendario nelle terre selvagge degli indios dell’Amazzonia
La seconda scoperta dell’America
 “Vaschetta” per bimbi
Una mamma del gruppo degli indios Piaroa fa il bagnetto ai bambini nelle del fiume Orinoco, a nord di San Fernando de Atabapo.
Ritratto di Alexander von Humboldt (1769-1859) due anni dopo il suo ritorno in Europa.
Dopo la descrizione fisica, sul passaporto di Humboldt era scritto: “Viaggia per acquisire sapienza”
Gli uomini remavano contro corrente, sfidando onde alte fino a due metri. Schizzi e schiuma impedivano di vedere la fine delle rapide. Un soffitto basso di nembi neri copriva il cielo. Sulla canoa, lunga 13 metri, fatta di un unico grande tronco scavato a colpi d’ascia e plasmato col fuoco, viaggiavano cinque indios, due spagnoli, un cane mastino, una ventina di uccelli, alcune scimmiette, centinaia di campioni di foglie, semi, radici. E due giovani scienziati: il tedesco Alexander von Humboldt e il francese Aimé Bonpland, partiti per studiare la natura delle zone più remote del Venezuela e per verificare l’esistenza del leggendario Casiquiare, un canale naturale che nei racconti degli indios e dei missionari doveva collegare il fiume Orinoco al Rio Negro, affluente settentrionale del Rio delle Amazzoni. Il timoniere si rivolse ai forestieri. Spiegò con la flemma tipica degli indios, che la canoa non avanzava di un metro. Anzi: stava scivolando indietro, verso le cascate. Poi due fulmini piombarono a pochi metri dall’imbarcazione. “Chi va all’Orinoco” recita un detto “non torna vivo, o torna folle”.
Tempesta sulle rapide. Era il 18 aprile del 1800 e con una tempesta furiosa sulle rapide di Atures e Maipures iniziava la parte più pericolosa di un viaggio che gli storici avrebbero battezzato “la seconda scoperta dell’America”.
I rematori non desistettero. Sul far della notte, zuppi sino alle ossa, gli esploratori riuscirono a trovare un approdo e, nei tre giorni successivi, superarono quel tratto insidioso camminando nella selva, trascinando la barca via terra.     
Oggi le rapide di Atures e Maipures sono una delle atrazioni turistiche del Venezuela. In centinaia vengono qui a sfidare le onde dell’Orinoco, su gommoni con motori da 40 cavalli. Pochi chilometri a valle, sorge una città che nel 1800 non esisteva: Puerto Ayacucho, 80 mila abitanti, fondata nel 1924 per far da capitale allo Stato di Amazonas. Ma appena fuori dalla città tutto è rimasto come allora: “Nulla può essere più grandioso dell’aspetto di questa regione” scrisse Humboldt osservando il paesaggio da una collina: “la lunga successione delle rapide, l’immenso lenzuolo di schiume e vapori illuminato dai raggi del sole al tramonto”. Duecentocinque anni dopo, l’ambiente è quasi intatto, remoto ed estremo, splendido e ostile. Abitato come ai tempi di Humboldt, da missionari in cerca di anime, indios in cerca di futuro e bianchi in cerca di fortuna.
La ricerca di una meta. Accompagnato dagli indios, un quartetto bizzarro si stava inoltrando in una regione che pochissimi bianchi avevano visto prima. Nicolàs Soto, cognato del governatore della provincia di Barinas, era accodato alla spedizione perché moriva dalla voglia di conoscere l’America selvaggia. Padre Bernardo Zea, che lungo il tragitto seguiva gli indios a caccia ti tartarughe di fiume, si era invece offerto di accompagnare i due scienziati stranieri perché voleva visitare i missionari sperduti nell’Alto Orinoco. Il francese, appena ventisettenne, si chiamava Aimé Goujaud, ma sin da bambino, grazie all’amore per la botanica si era guadagnato il soprannome di bonplant (“buona pianta”).   
Divenne medico, ma non abbandonò la sua missione e scelse di cambiare il proprio cognome in Bonpland. Friedrich Whilhelm Heinrich Alexander von Humboldt era invece un trentunenne dalla cultura enciclopedica. Aveva studiato economia, legge, lingue, geologia, botanica, chimica, fisica, astronomia, zoologia e anatomia. Era stato funzionario statale, ma da sempre sognava di intraprendere un grande viaggio scientifico, alla ricerca di quella che lui chiamava “una fisica generale”, una scienza universale capace di mostrare “l’unità della natura”. Quando nel 1796 era morta la madre, Humboldt aveva deciso di spendere l’eredità in nome dei viaggi e della scienza. Aveva comprato cronometri di precisione, sestanti, quadranti, microscopi, telescopi, bussole, barometri, igrometro, elettrometri, batterie, reagenti chimici. Persino uno strumento per misurare il blu del cielo. Andò a Parigi per imbarcarsi con una spedizione che doveva circumnavigare il globo, e che però non partì mai. Cercò, invano di andare in Egitto, al seguito di Napoleone. Infine fece amicizia con Bonpland e i due corsero a Madrid con l’idea di imbarcarsi per l’Africa. Ottennero invece il permesso di recarsi nelle terre americane del regno di Spagna, ma a proprie spese. Humboldt pagò tutto, compreso il viaggio di Bonpland. Sarebbe diventato l’uomo più famoso dell’epoca, assieme a Napoleone Bonaparte.
Gli indios? Eccellenti geografi. I due scienziati salparono da La Coruna (Spagna) il 5 giugno 1799 e sbarcarono a Cumanà, sulla costa nord del Venezuela, cinque settimane dopo. Qui si fermarono quattro mesi, raccogliendo esemplari di piante e animali che poi osservavano al microscopio. Dopo un’ulteriore tappa a Caracas si sentirono pronti per affrontare l’interno.
Quando nell’aprile del 1800, si diressero verso il Casiquare, missionari e colonizzatori avevano già percorso le sue acque e fondato il villaggio di San Carlos de Rio Negro alla sua foce. Ma, in Europa, per molti geografi il canale era un assurdo idrogeologico, frutto della fantasia dei selvaggi. Era impossibile, per la scienza ufficiale, che un fiume grande come l’Orinoco potesse biforcarsi, lontano dal proprio delta, per originare un canale che poi sfociava in un altro fiume (il Rio Negro). Il geografo Philippe Buache aveva addirittura definito l’ipotesi “un errore geografico mostruoso”. Humboldt, invece, credeva ai missionari e ancor più alla parola degli indios, che, disse, “sono eccellenti geografi”. A indicargli la strada, a San Fernando de Apure, fu un frate cappuccino: “Prendete l’Orinoco sino all’incrocio col Rio Atabapodisse. Risalite il fiume fiché la corrente non vi impedisca di avanzare. Là verrete spinti fuori dagli argini ed entrerete nelle foreste inondate. Vivono in quelle giungle due monaci che vi forniranno mezzi per trascinare la canoa, via terra, sino al Rio Negro. Discendete lungo il fiume: dopo un giorno, troverete il canale”. Così fecero.
La terra dei salvajes e dei Mosquitos.
Al di là delle grandi rapide dell’Orinoco, una terra ignota aveva inizio. “Passate le grandi cataratte”, scrisse Humboldt, “ci si sente in un mondo nuovo, come se si fossero superate le barriere che la natura sembra aver posto fra i paesi civilizzati della costa e il selvaggio, sconosciuto entroterra”. Era una terra di fiaba dove vivevano, si diceva, cannibali, esseri senza testa e col volto sul ventre, uomini dal muso di cane e i salvajes, pericolosi uomini-scimmia. Ma non ci fu bisogno di loro per rendere rischioso il viaggio. Risalendo il fiume, gli esploratori incontrarono caimani, serpenti, ragni velenosi, giaguari, pirana. Le lunghe ore di navigazione sulla canoa, larga meno di un metro, non erano facili. Sole e pioggia flagellavano gli esploratori, protetti solo in parte dal tettuccio di foglie di palma che ancora oggi si usa sui bongo, le canoe tipiche dell’Orinoco. Ma il flagello peggiore era la plaga (“la piaga”): nugoli di mosche, moscerini e zanzare, che i viaggiatori cercavano di scacciare con il fumo, accendendo falò sulla barca, e da cui si riparavano come potevano, coprendo corpo e volto con panni (i mosquitos entravano anche nel naso, nelle orecchie, negli occhi). La velocità delle imbarcazioni di oggi, quasi identiche a quella di Humboldt ma a motore impedisce ai Mosquitos di raggiungere i viaggiatori durante la navigazione. Ma nelle soste, i repellenti non bastano a tenerli lontani. Così “la piaga” è ancora l’argomento di conversazione di stranieri e abitanti del luogo.
Ci si incontra è già si chiede: «Come ti sono parse le zanzare” a valle è un po’ meglio?». Humboldt scrisse che per il prurito non riusciva a tenere fissi gli strumenti astronomici, che gli servivano per determinare la loro posizione. Guardando il cielo, una notte, un indio gli disse che pensava fosse meraviglioso vivere sulla Luna. Così chiara, limpida: non dovevano esserci insetti lassù.
Alla conquista di anime e corpi. Il 21 aprile Humboldt e Bonpland lasciarono le acque dell’Orinoco per entrare in quelle, nere come la Coca-Cola, dell’Atabapo. Furono ospiti dei missionari di San Fernando de Atabapo, fondata nel 1756 all’incrocio di tre grandi fiumi: il Guaviare (che oggi appartiene alla Colombia), l’Atabapo e l’Orinoco. Il prete che dirigeva la missione raccontò a Humboldt dei raid militari che organizzava “per la conquista delle anime”. Reclutando gli indios come soldati, i gesuiti rapivano adolescenti, che venivano distribuiti come schiavi fra gli indigeni convertiti della missione. Humboldt, fervente repubblicano, ch riteneva la schiavitù “il male peggiore che affligge l’umanità”., ne fu sconvolto. Oggi,molte delle etnie indigene osservate dall’esploratore sono estinte. Quelle sopravvissute alle vessazioni, alle malattie portate dai bianchi e al genocidio operato dai baroni del caucciù (proprietari terrieri che, all’inizio dell’800, usarono gli indios come schiavi per l’estrazione dell’”oro nero d’Amazzonia”) sono ridotte ad alcune centinaia o poche migliaia di persone. Sono gli indios Curripaco, i Piaroa, i Baniwa, i Baré, gli Yanomami, gli Yekuana, i Guahibo, che cercarono un futuro nel mondo del XXI secolo.
Humboldt non vide guerriglia e narcotraffico, ch oggi sono invece la presenza invisibile che accompagna il viaggiatore, e la forza visibile, con cui gli indigeni devono fare i conti: per sopravvivere nelle selve di frontiera, gli indios devono imparare ad obbedire alle leggi contrastante imposte ora dall’esercito, ora dai paramilitari, ora dai guerriglieri. San Fernando è una cittadina di qualche migliaio di anime, ancora marcata dalla presenza missionaria. Come ai tempi di Humboldt, ragazzi e ragazze si separano dalle famiglie per andare nei collegi. Ma lo fanno per scelta: vogliono studiare. «La politica dei missionari è cambiata» spiega l’antropologo Ramòn Iribertegui, un prete spagnolo giunto in queste terre decenni fa. «Cerchiamo di fare in modo che la lingua e le tradizioni indigene non si perdano, fornendo però l’educazione che gli indios chiedono per affrontare un mondo che cambia. Forse, però, siamo arrivati troppo tardi».
Il fiume che non esisteva. Abbandonata la missione di San Fernando, Humboldt e i suoi compagni navigarono lungo l’Atabapo. Poi, come previsto dal frate cappuccino, si inoltrarono nella foresta inondata lungo fiumi minori, il Temi e il Tuamini, sino a giungere  alla missione di Yavita, dove incontrarono i monaci che li avrebbero aiutati. Gli insetti diedero tregua ai viaggiatori, perché i fiumi di acque nere, che sorgono da montagne dilavate da milioni di anni di erosione, sono poveri di nutrienti e inadatti allo sviluppo delle larve. I fiumi “bianchi” invece, come l’Orinoco, sgorgano da terre giovani: sono argillosi e ricchi di sostanze nutritive, un vero banchetto per le zanzare. Humboldt e Bonpland si fermarono alcuni giorni a Yavita, mentre gli indios abbattevano alberi da usare come carrelli per trasportare la canoa nella selva. Finalmente, il 6 maggio 1800, arrivarono nel Rio Negro e, navigando verso sud, il giorno seguente videro le sue acque scure confondersi con quelle chiare del Casiquiare, il fiume che per molti non poteva esistere. Troppo stanchi per effettuare subito le misurazioni della posizione geografica, proseguirono verso il villaggio di San Carlos, dove si fermarono tre giorni. Erano vicini, come scrisse Humboldt, “all’obiettivo più importante del viaggio: determinare le coordinate di quel braccio di Orinoco che cade nel Rio Negro, l’esistenza del quale è stata ora affermata, ora negata”. San Carlos de Rio Negro è, oggi come allora una triste cittadina di frontiera. C’è un ristorante-birreria, una pista d’atterraggio in terra battuta che i bambini usano per far volare gli aquiloni e una casa che è anche negozio (“Vendesi ghiaccioli e cemento. Si compra oro”, recita il cartello sulla porta) nonché posto telefonico pubblico. Sull’altro lato del fiume c’è San Felipe, piccolo villaggio colombiano di commercianti e pescatori, senza polizia né politici: da tempo è in mano alle Farc, il maggiore gruppo guerrigliero colombiano.
Missione compiuta. Il 10 maggio Humboldt e Bonpland si prepararono a imboccare il Casiquiare. Ma li aspettava una pessima sorpresa. “Scoppiammo quasi in lacrime” scrisse Humboldt “quando aprimmo le nostre casse per le piante”. L’umidità aveva distrutto oltre un terzo dei campioni. Inoltre, le nubi nascondevano le stelle da giorni e impedivano di misurare le coordinate del Casiquiare. Era la catastrofe. Valeva la pena aspettare, a rischio di perdere ogni campione? O dovevamo rinunciare a determinare la posizione del canale e tornare indietro lungo il cammino già percorso? Humboldt decise che desistere “per paura del cielo nuvoloso e dei mosquitos” era una vergogna, e la canoa riprese il proprio corso. Ne valse la pena. Il giorno dopo ormeggiammo a pochi chilometri dalla foce del Casiquiare. Il tempo stava migliorando e, calata la notte, complici la costellazione della Croce del Sud e quella del Centauro, Humboldt riuscì a misurarne latitudine (2°0’ nord) e longitudine (69°33’ ovest, sbagliando di oltre 2 gradi).
Una previsione sbagliata. Il resto del viaggio fu a tappe forzate. Risalendo il Casiquiare incontrarono un prete che viveva lì da vent’anni, in compagnia dei Mosquitos. Le sue gambe “erano tanto massacrate dagli insetti che quasi non si intravedeva il colore originale della pelle”.  
L’Amazzonia che punì l’avidità
Eldorado
I conquistadores continuarono e esplorare la foresta in cerca di ricchezze del mitico El Dorado non le trovarono, e le spedizioni finirono spesso in catastrofe.
Nel 1541 Gonzalo Pizarro, fratellastro del conquistador Francisco e governatore di Quito (Ecuador), partì alla ricerca di spezie e del mitico El Dorado, che si credeva esistesse al di là delle Ande. Portò con sé 220 cavalieri, 4 mila schiavi indigeni, migliaia di la, porci e cani addestrati per sbranare gli indios.
Soldati arrugginiti. Già nei primi 15 giorni sulle Ande morirono 100 indigeni. Nella foresta, armi e corazze arrugginirono e i cavalli e i lama si bloccarono nel fango. Pizarro decise di continuare con solo 80 uomini.  
Vagarono nella foresta e costruirono un brigantino per discendere i fiumi. Dieci mesi dopo il cibo era finito e tutti gli schiavi erano morti. Francisco Orellana, generale di grande esperienza che si era unito alla spedizione, si offrì di andare in avanscoperta. Ma non tornò.
Le terribili Amazzoni. Con 56 soldati e il frate domenicano Gaspar de Carvajal. Orellana discese il Napo in direzione sud-est. Nel febbraio del 1542 entrò in un fiume colossale che scorreva verso est. Seguendone il corso, il gruppo fu attaccato più volte dagli indios. Carvajal fu compito a un’anca e una freccia gli trapassò un occhio. Si salvò e, nel fantasioso racconto del viaggio che scrisse al rientro, raccontò che gli indios erano sudditi di donne guerriere “nude, bianche e grandi, e con capelli lunghissimi” che lottavano “ognuna con la forza di dieci indiani”. Il grande fiume, che fino allora si chiamava Maranòn, stava per diventare il “Rio grande de las Amazonas”, il Rio delle Amazzoni. Percorrendolo fino alla foce, gli esploratori raggiunsero il mare in agosto.
Un inferno verde. Nel febbraio del 1559 anche Pedro de Ursùa partì da Lima (Perù) con 300 soldati in cerca dell’El Dorado. Fu ucciso due anni dopo, in un ammutinamento organizzato dall’ufficiale Fernando Guzmàn e dal soldato Lope De Aguirre, che presero il comando. Quest’ultimo poi assassino anche Guzmàn e si mise a capo della spedizione. Viaggiò dieci mesi nella selva su un fiume “grande e spaventoso”, dove non c’era “altro da fare che disperarsi” (forse era l’Orinoco). Arrivò infine nel mar dei Caraibi, dove inviò una lettera al re di Spagna autoproclamandosi monarca delle selve. Raggiunto dalle truppe governative, Aguirre primo imperatore d’Amazzonia, morì dopo aver ucciso a coltellate la propria figlia per impedire che fosse catturata. L’Amazzonia, dissero molti, è un inferno verde che rende pazzi.
Anziano, Humboldt scrisse la sua opera capitale, Kosmos sulla profonda unità della natura
Il canale era un corso d’acqua deserto fra due muri compatti di foresta, e con pochissimi approdi. Humboldt pensava che in futuro le merci avrebbero viaggiato dal Perù ai Caraibi grazie a quel fiume che, verso la foce sul Rio Negro, è largo oltre 500 metri. E che le cittadine sull’Orinoco sarebbero diventate grandi porti commerciali. La profezia non si avverò. Oggi sul Casiquiare passano soltanto pochi battelli che riforniscono San Carlos di Coca-Cola e carne, e le imbarcazioni che contrabbandano benzina venezuelana, droga colombiana e oro. Per il resto si possono passare giorni senza vedere nessuno. Il 21 maggio Humboldt e Bonpland videro le acque del canale aprirsi su un fiume immenso: erano di nuovo sull’Orinoco. Lo risalirono per pochi chilometri sino al villaggio di Esmeralda, tanto infestato dagli insetti che i missionari con qualche peccato da scontare venivano spediti qui in punizione. Oggi Esmeralda è un aeroporto con un paesino attorno, abitato da meticci e indios Yekuana. Ma la pista d’atterraggio, si vantano qui «è la più ricca del mondo», perché l’asfalto posa direttamente su un letto di migliaia di cristalli al quarzo. Un conquistador ingenuo pensò che fossero diamanti e smeraldi, e diede al villaggio il nome sbagliato che gli è rimasto. Nel collegio salesiano, indios di diverse etnie studiano assieme per poi tornare ai propri villaggi come maestri di scuola. All’orizzonte si staglia il monte Duida, un antichissimo tavoliere di arenaria quasi inesplorato.
E nelle foreste a valle della cittadina sorge una base scientifica internazionale, abbandonata da alcuni anni per mancanza di fondi. Si chiamava Base Humboldt.
Il popolo della foresta. Humboldt, instancabile, fu tentato di risalire l’Orinoco in cerca delle sorgenti.  
Ma ebbe paura delle frecce al curaro di piccoli guerriglieri dalla pelle bianca, all’epoca quasi sconosciuti, che venivano chiamati Waika. Sono gli Yanomami, una delle ultime grandi nazioni indigene sopravvissute alla conquista. Orgogliosi, coraggiosi difensori delle proprie terre (le fittissime foreste fra Venezuela e Brasile), gli Yanomami che oggi sono oltre 20 mila, resistettero ai conquistatodores e ai missionari (le sorgenti dell’Orinoco furono esplorate dai bianchi solo pochi decenni fa). Conoscono le città dei napepe (“i nemici, gli estranei”: cioè i bianchi). Conoscono vestiti, scarpe, fucili, motori, machete: ma usano anche gli archi e le pitture corporali, un’usanza che i missionari evangelici cercano di contrastare perché, insegnano «il nostro corpo è il tempio del Signore; insozzarlo è un omaggio a Satana». Gli sciamano producono ancora il micidiale curaro, che aveva tanto spaventato Humboldt, e parlano con gli spiriti della foresta sotto l’effetto della polvere allucinogena che chiamano yàkòana. Vivono ancora in comunità dove non esistono il denaro né le prigioni inventate dai bianchi. Nonostante la fama di feroci guerrieri li accompagni tuttora, i cercatori d’oro invadono a centinaia la loro selva, portando alcolismo, pallottole e malattie veneree. Nel 1993 un gruppo di brasiliani penetrò nel villaggio di Haximu, nell’Alto Orinoco. Uccisero a colpi di pistola e machete tutti gli indios che trovarono, compresi i bambini. Per questo,  il governo venezuelano tenta di far sì che, come ai tempi di Humboldt. Esmeralda sia l’ultimo posto cui si possa arrivare facilmente risalendo l’Orinoco: non si può entrare nelle terre degli Yanomami senza un permesso speciale.
Dalla Terra alla Luna. I due scienziati uscirono dalla selva estenuati e malati di una febbre violenta e debilitante, che quasi uccise Bonpland. Ma non si fermarono. In 4 anni attraversarono paludi e scalarono vulcani, esplorarono foreste e deserti in Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù, Messico, Cuba, Stati Uniti. Il 3 agosto del 1804 fecero infine ritorno in Francia. Bonpland tornava con un bottino di migliaia di piante tropicali, molte delle quali sconosciute. Humboldt con quintali di carta. Aveva studiato le linee isoterme e i pesci elettrici d’Amazzonia, le tempeste magnetiche e le proprietà fertilizzanti del guano, le correnti oceaniche e i temporali tropicali, il vulcanismo e la periodicità delle piogge di meteore. Nel 1808 si stabilì a Parigi per pubblicare, a sue spese, l’immensa mole di dati. Divenne famosissimo. Vezzeggiato dai monarchi, si vide offrire cariche diplomatiche, accademiche, politiche. I più importanti intellettuali dell’epoca si dichiararono suoi ammiratori entusiasti. Goethe scrisse: “In un’ora con lui, si impara quanto in otto giorni sui libri”. Il patriota venezuelano Simòn Bolìvar dichiarò che era “il verso scopritore del Sud America”. Charles Darwin si imbarcò su Beagle con i libri di Humboldt in valigia “Se prima lo ammiravo” disse poi “ora quasi lo adoro”. Oggi, la fama di Alexander von Humboldt è quasi svanita, ma la sua impronta resta indelebile. Portano il suo nome istituti e fondazioni di ricerca. Solo nel Nord America esistono tre contee, una dozzina di città e una decina fra laghi, fiumi e baie che si chiamano Humbldt. Ma sparsi per il mondo sono dedicati a lui animali, ghiacciai, correnti marine, montagne e parchi nazionali. Persino sulla Luna. Lontano dai mosquitos, esiste un Mare Humboltianum.  
per saperne di più
personal narrative of a journey to the equinoctial regions of the new continent, Alexander von Humboldt (Penguin). In inglese.
Laboratorio senza finanziamenti
La foresta si riappropria degli edifici della Base scientifica “Humboldt”, vicino ad Esmeralda, ormai abbandonata per mancanza di fondi.  
I gioielli della selva
Donne yanomami impastano la farina di manioca. Fin da bambine si perforano il labbro inferiore con stecchini di legno. Da adolescenti forano il naso e inseriscono cilindri di legno nei lobi.
“Questi indigeni coltivano banane e manioca, ma non il mais. La manioca, trasformata in sottili focacce, è il pane di questo Paese”
“La solitudine di queste regioni è così profonda che, da Caricacha a Yavita e da Esmeralda a San Fernando de Atabapo, abbiamo incontrato un’unica barca”
Passaggi di luci e ombre
Le sponde dell’Orinoco vicini a Esmeralda. La principale risorsa del Venezuela è il petrolio, che fornisce circa un terzo del Pil. Lo sfruttamento dei giacimenti minaccia però la foresta.
Mentre erano accampati lungo il canale Casiquiare, i viaggiatori persero il loro “amato mastino”, sbranato da un giaguaro
Sull’amaca, intorno al fuoco
L’interno di una capanna yanomami nel villaggio di Wirionawa. Le abitazioni mantengono la struttura tradizionale.
Bambini yanomami con il loro animale domestico: un piccolo di scimmia cebo.
Lo sciamano del villaggio sotto l’effetto della yakòana, un potente allucinogeno.
Una scimmia ursina, primate del Sud America descritto da Humboldt.
Specialità del luogo
Caimano fatto a pezzi, catturato sul Casiquaire: finirà in zuppa.
Effetto missione
Un poster con la madonna affisso nel collegio di Esmeralda.
Rivivete l’avventura dei nostri inviati attraverso i loro diari e le loro foto su:
“dissero il tuo Dio vive rinchiuso in una casa, come se fosse vecchio e malato, il nostro è nella giungla, nei campi, nelle montagne da cui viene la pioggia”
Le rughe del tempo
Un’anziana india a Lau-Lau, sul fiume Orinoco. Il Venezuela ha venticinque milioni di abitanti. Il 96% è di confessione cattolica, il 2% è protestante e il restante 2% professa altre Religioni.
Vivere sull’acqua
Un bambino corre verso l’Orinoco. In basso, le prue di due canoe usate dagli indios. In Venezuela ci sono 7.100 km di vie navigabili d’acqua dolce, ma solo 682 km di ferrovie.
Un’orchidea, descritta da Humboldt, che vive al confine tra Ecuador e Perù.
Fra passato e presente
Donne in abiti moderni davanti a un murales del Museo archeologico di Puerto Ayacucho. In Venezuela vivono diversi gruppi etnici, fra cui europei, arabi, neri e amerindi.
“Non è quindi sorprendente che gli indios isolati delle missioni imparino lo spagnolo meno facilmente di quelli che vivono fra i meticci, i mulatti e i bianchi delle periferie delle città”
Traslochi complicati
Sotto la pioggia, un bongo trasporta masserizia lungo l’Orinoco.
Il bongo è l’imbarcazione tipica di questo fiume.  
Stendino indio
Panni stesi ad asciugare sulle rocce a San Fernando de Atabapo, villaggio che sorge alla confluenza di tre fiumi.
“A” come Amazzonia
La scuola elementare di San Pedro, sull’Orinoco. Circa il 7% dei venezuelani non sa leggere né scrivere.
Al microscopio, Humboldt svelava alle dame lo spettacolo dei loro pidocchi. Per consolarle diceva che erano “pidocchi aristocratici”
Sul battello della Coca Cola, che fornisce i villaggi lungo il fiume.
Canotto gonfiabile
Due bambini giocano con una camera d’aria a Puramane, villaggio sull’Orinoco.
Al sicuro nella cesta
Una donna trasporta la sua bambina in una cesta di behuco, vicino a San Fernando de Atabapo. In Venezuela le donne hanno in genere 2 o 3 figli. È un Paese giovane: l’età della popolazione è di soli 25,6 anni.
“Gli indios ci dissero che le foreste abbondano di una pianta rampicante chiamata behuco de manures. Questa specie di liana si usa per fare ceste e tappetini”
Panettieri della foresta
La preparazione del cassave, il pane non lievitato fatto di farina di manioca-
Gli esploratori scienziati
A partire dal Settecento si intrapresero esplorazioni per scopi scientifici. Nel 1735 i francesi Pierre Bouguer e Charles-Marie de La Condamine andarono i Perù per misurare l’arco del meridiano vicino all’equatore. La Condamine si staccò poi dal gruppo e discese il Rio delle Amazzoni, osservando, fra l’altro, la preparazione del curaro da parte degli indios e il caucciù.
Onorato. Nel 1768 il botanico inglese Joseph Banks s’imbarcò (a sue spese) sull’Endeavour e viaggiò 3 anni per i mari australi catalogando migliaia di piante, tra cui quelle del genere Banksia (in suo onore).
Rana volante. Il naturalista Henry Bates partì invece per esplorare l’Amazzonia nel 1848. Rimase in Sud America 11 anni raccogliendo oltre 14 mila campioni (soprattutto insetti), 8 mila dei quali sconosciuti alla scienza.
Il suo collega e amico Alfred Wallace viaggiò dal 1854 al 1862 nell’arcipelago malese, dove scoprì la “rana volante”, che plana dagli alberi al suolo.
La celebrità. Ma la spedizione scientifica più nota fu il giro del mondo di Charles Darwin su Beagle (1831-36): in base alle osservazioni effettuate in quel viaggio formulò la teoria dell’evoluzione.
Dagli schizzi tracciati da Humboldt nel viaggio, incisori e artisti ricavarono le tavole che furono inserite nei suoi trattai.

2 commenti:

  1. L'Amazonia è cosi bela e cosi impoetante al mondo che è dovere di tuti tutelare questo paradiso. Complimenti per il post Enzo.

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  2. E' VERO SONO D'ACCORDO, BISOGNA SALVAGUARDARE QUESTA BELLEZZA NATURALE E IMPORTANTISSIMA DELLA TERRA, PER QUESTO L'HO INSERITO NEL POST (PIANETA TERRA). ENZO

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