venerdì 10 agosto 2012

MAYERLING

 Questo romanzo scritto da Benito Mussolini, e che s’intitola Rudolf: rievoca la tragedia di Mayerling (30 gennaio 1889), cioè il doppio suicidio di Rodolfo d’Asburgo (figlio della mitica imperatrice d’Austria Sissi) e della sua giovanissima amante, la baronessa Mary Vetsera.
Ebbene , nel 1909, si cimentò in questa trama, sotto forma di romanzo breve, un giornalista di belle speranze e con un cognome destinato alla storia: Benito Mussolini. Il futuro Duce, viveva all’epoca a Trento e non se la passava bene. A corto di denaro, preso di mira dalla polizia come pericoloso sovversivo, pensò di poter guadagnare qualche soldo come scrittore.  La sua idea era quella di produrre una serie di quattro racconti intitolata Storia di Casa d’Austria. Scrisse anche i titoli.
La tragedia di Mayerling, poi Il fucilato di Queretaro. Il terzo romanzo avrebbe dovuto intitolarsi L’imperatrice Elisabetta IV e il quarto Franz Joseph intimo. Ma riuscì a scrivere solo il primo di questa quadrilogia.
Mussolini ben sei anni prima dell’ingresso in guerra contro l’Austria, aveva come obbiettivo politico attaccare la monarchia di Vienna che opprimeva Trento e Trieste. Con il romanzo su Mayerling intendeva  inoltre rovesciare una storia d’amore che, a suo avviso, era tutt’altro che romantica ma, anzi, era un autentico intrigo. Infine come sostenne pubblicamente, intendeva “smascherare i sottili giochi dei clericali alla corte degli spurgo”. Mussolini aveva appena terminato di scrivere (sulle pagine di un quaderno) il primo dei quattro romanzi, quando, la polizia fece irruzione nella sua casa di Trento. Lui venne arrestato e tutti i suoi documenti e manoscritti sequestrati. Il suo violino fracassato. Durante la perquisizione, un amico riuscì a nascondere il quaderno con il manoscritto sulla tragedia di Mayerling che, nel 1926 venne restituito all’autore. Mussolini lo fece archiviare. Poi nel 1938, un addetto alla segreteria del Duce, il colonnello Antonio Marino, ritrovò il quaderno. Benito Mussolini rilesse l’antico manoscritto giovanile e sentenziò:
“Ho altre cose a cui pensare. e lo tenga, colonnello. Alle 43 pagine del manoscritto originale ne mancano due, chissà perché strappate. Marino conservò il manoscritto fino alla sua morte, avvenuta nel 1972. il figlio Giorgio lo fece pubblicare sulla rivista Il Borghese nel 1973. poi l’originale fu ceduto e adesso, stando alle ultime notizia, si trova presso la biblioteca della prestigiosa Università di Stantford negli Stati Uniti. Grazie alla gentile collaborazione del Centro Studi della Repubblica Sociale con sede a Salò Gente ha potuto visionare e fotocopiare il manoscritto di questo racconto, cioè la tragedia di Mayerling, con firma autografa di Benito Mussolini. Ve lo proponiamo cos’ come venne scritto, con le parole e le espressioni tipiche in uso all’inizio del Novecento. Certamente auliche, ma con tutto il fascino d’altri tempi.
di Benito Mussolini
Al 30 gennaio del 1889, verso le dieci del mattino, un una stanza matrimoniale del castello di Mayerling, situato nelle vicinanze di Vienna, fu trovato morto Rodolfo d’Austria, principe ereditario alla corona degli Asburgo. Accanto a lui, gelida nella compostezza suprema della morte, giaceva la baronessa diciottenne Maria Vetsera, bellissima. Dopo la ferale scoperta che i fili del telefono annunciarono in tutto il mondo e che commosse ogni popolo civile, sorsero infinite versioni dell’avvenimento. La tragedia si era svolta nel cuore di una tenebrosa, lunga notte invernale e no aveva lasciato supersiti. Le fantasie si sbizzarrirono. Pubblicisti e scrittori vollero spiegare il fatto, svelare il mistero di quella duplice morte secondo i dettami della logica.
Dimenticarono che il cuore non ha regole e che la passione non obbedisce a leggi. Secondo alcuni, sarebbe stata prima la baronessa ad avvelenarsi, poi l’amante Rodolfo l’avrebbe seguita, fracassandosi il cranio con un colpo di rivoltella. Secondo altri Rodolfo  sarebbe stato ucciso da Maria Vetsera che poi si sarebbe suicidata. V’era ancora una terza versione: alla sera della notte fatale molti cavalieri reduci da una caccia erano convenuti al castello di Myerling. Si banchettò fino a tarda ora. Mentre il principe Rodolfo si ritirava alquanto ebbro nei suoi appartamenti, venne raggiunto da uno dei suoi commensali e ucciso da un colpo di pugnale a tradimento. L’assassino pazzo d’amore per Mary, era geloso del principe e profittò dell’uccisione per sopprimerlo. Non possiamo passare infine sotto silenzio la leggenda diffusissima tra le popolazioni abitanti il territorio austriaco, per la quale Rodolfo sarebbe ancora vivo, ma rinchiuso in un convento di gesuiti. Uscirà solo alla morte del padre per assumere le redini del potere. Secondo la stessa leggenda, anche la baronessa non è morta, ma è fuggita, si è spostata e vive da piccola borghese ignorata in un angolo dell’Italia meridionale. Queste versioni e queste leggende sono arbitrarie creazioni della fantasia popolare. La verità e diversa e a ricostruire nei suoi precedenti la tragedia e a spingerla nelle sua cause mediate e immediate molto giovarono le rivelazioni della principessa Odelscalchi, nata contessa Zicky, e molto hanno giovato i documenti che siamo andati religiosamente accumulando con difficoltà non lieve, poiché la corte austriaca ha fatto sequestrare tutta la pubblicazione che si riferiva alla tragedia di Mayerling.

La principessa Odelscalchi chiama Rodolfo d’Austrui “il più gentile degli uomini e il più infelice dei principi” Egli era intelligentissimo e sin dai primi anni stupiva per la prontezza d’ingegno di maestri che lo evavno in cura. Dalla madre Elisabetta aveva ereditato la mitezza del carattere e una certa liberalità da mecenate per cui si compiaceva nel frequentare e proteggere scienziati, artisti, poeti. Nel suo spiccato liberalismo era malvisto a corte e dava luogo a rimproveri paterni. I gesuiti non tolleravano le sue tendenze francesi, il suo modo spregiudicato di giudicare uomini e avvenimenti e il suo anticlericalismo sempre più accentuato.
Rodolfo d’altra parte non poteva soffrire gli ignaziani. Egli subiva la loro nefasta tirannia spirituale, affrettando col pensiero il giorno in cui se ne sarebbe liberato per sempre.
Dal padre proveniva il suo amore per la caccia. Dalle verdi valli della Boemia o della Corinzia alle vaste solitarie putze (pianure ungheresi era tutto un campo di caccia per lui e i cavalieri del suo seguito che egli aveva reclutati in gran parte tra i nobili d’Ungheria.
Sino all’età di diciotto anni precettore di Rodolfo fu il conte d Godrecourt, poi successe il conte Bombelles. Il primo era un maestro severo, il secondo invece accoppiava la superbia dell’aristocratico alla vacua frivolità del cortigiano.
Rodolfo conobbe e profittò della libertà. Cominciò a frequentare le donne. Nessuna gli resisteva. Ebbe i baci di fanciulle e spose. L’intrigo d’amore, la passione carnale gli corrompeva poco a poco l’anima e gli deprimeva la salute.
Le sue avventure provocarono scandali e discordie in parecchie nobili famiglie. La corte comperò il silenzio con l’oro o lo impose con la violenza. Francesco Giuseppe tollerava la vita licenziosa del figlio. Anche il vecchio aveva avuto una tempestosa giovinezza e non poteva dettare regole di puritanismo. Quando però si vide che la salute di Rodolfo deperiva mimata dagli eccessi sessuali si decise di dargli moglie.
Ma dove una principessa degna di cingere la corona della casa d’Austria? Rodolfo cominciò la ricerca nelle corti delle monarche cattoliche, ma senza risultato. Alla fine la scelta cadde sulla principessa Stefania del Belgio, sorella minore della principessa Luisa di Coburgo.
L’imperatore approvò.
Stefania allora aveva 16 anni. Era bionda, bella e buona. Piacque a Rodolfo. Tuttavia mancò poco che la relazione si troncasse sul nascere. Ed come. Rodolfo all’epoca del suo primo incontro con Stefania a Bruxelles, era innamorato di una signora ebrea separata dal marito, ricchissimo industriale di una città dell’Austria Superiore. Questa ebrea aveva incantato Rodolfo. Egli non poteva separarsi da lei. La volle compagna anche quando, cedendo alle convenzioni delle etichette, dovette recarsi a Bruxelles, da Stefania, la fidanzata ufficiale. Viaggiarono insieme e dormirono insieme matrionalmente all’albergo. Rodolfo intanto visitò Stefania e fissò il giorno delle nozze.
Alla sera della partenza di Rodolfo, Stefania, accompagnata dalla madre, volle recarsi alla stazione. Il fidanzato non lo sapeva. Mentre il treno si metteva in movimento, Stefania corse rapida con l’occhio lungo tutti gli sportelli delle vetture, per cedere ancora una volta Rodolfo… ma a un certo punto si fermò: il cuore fu quasi per scoppiarle nel petto, le ginocchia le tremarono e dovette per non cadere appoggiarsi alla madre che non sapeva darsi ragione di tale improvviso turbamento… Passata la crisi, Stefania parlò. In quel vagon-salon aveva visto Rodolfo chinarsi con moto rapidissimo su una bella signora che gli stava di fronte e baciarla sulle labbra. Doveva essere una sua amica, una vecchia amante… Era la bella signora ebrea dai baci ardenti, dalle carezze sataniche, era la donna che Rodolfo amava sopra ogni altra al mondo. Stefania raccontò l’avventura a padre. Questi voleva rimandare per sempre le nozze progettate. La diplomazia di Leopoldo e quella di Francesco Giuseppe ebbero molto da lavorare, per rendere possibile il matrimonio. Eliminate le difficoltà, la principessa Stefania del Belgio andava in sposa all’erede della Corona di Austria e Vienna salutava con grandi feste, un bel mattino di maggio, la nuova coppia imperiale.
I primi tempi del matrimonio trascorsero lieti. Dopo nove mesi nacque una bambina. Rodolfo avrebbe preferito un maschio. Egli riprese allora gradatamente le sue vecchie abitudini di scapolo. Ciò suscitava le gelosie di Stefania. Essa non tollerava le infedeltà oramai palesi continue del marito. Luisa di Coburgo le raccontava tutte le avventure extra-matrimoniali di Rodolfo. In breve la vita in comune fra i due augusti sposi divenne impossibile. Le scenate violente avvelenavano qualunque intimità.
Narreremo un curioso episodio. Rodolfo utilizzava per recarsi ai suoi convegni d’amore la modesta vettura di un brumista chiamato Bratfish. Stefania che aveva organizzato un servizio attivo di spionaggio, seppe un giorno che Rodolfo si era recato in casa della signora ebrea. La principessa si fece condurre nell’equipaggio di corte sino alla casa della sua fortunata rivale. Lasciò davanti al portone la carrozza e ritornò al palazzo di corte con una vettura a nolo. Quando Rodolfo uscì si trovò circondato da una folla acclamante, che avendo riconosciuto l’equipaggio imperiale, voleva salutare il principe. Questo scherzo feroce diè il crollo alla tirannia. Stefania e Rodolfo erano ormai due esseri che si odiavano reciprocamente. Rodolfo s’ingolfò in ogni specie di amori equivoco e non si curò più in nessun modo della moglie.
A questo punto il racconto originale si interrompe e due pagine del manoscritto risultano mancanti. Un ignoto autore ha integrato successivamente il racconto con parole proprie, per consentire la continuazione logica della lettura. Il brano aggiunto, nel manoscritto, risulta chiuso tra due parentesi quadre. Eccolo)
(Intanto era spuntata a corte la baronessa ElenaVetsera, figlia di un ricco banchiere greco, di Chio, un certo Teodoro Baltazzi, e di una nobile inglese. Aveva sposato a Vienna un barone ungherese, Carlo Vetsera, di modesta nobiltà ma bene avviato alla carriera diplomatica. Quel matrimonio le aveva aperto tutte le porte. Bellissima, intelligente, ricca, di lei si sapeva che non amava il marito, malgrado gli avesse datom quattro figli, Anna, Maria Làszlò, Feri. Si diceva anche che la secondogenita, Maria fosse bellissima, destinata un giorno ad offuscare lo splendore della madre. Tutti la chiamavano all’inglese “Mery dear”. In quel tempo l’arciduca si mostrava sempre più spregiudicato, non solo davanti ai suoi familiari e ai suoi cortigiani, ma anche pubblicamente. A tutti noti il suo disinteresse per la Chiesa e per le tradizioni religiose. Un giorno, visto un feretro portato a spalla da contadini ungheresi, ordinò di deporre a terra la bara e gridò: “Voglio provare la fedeltà dei magiari!” Fece scoperchiare la cassa dove il povero morto giaceva ed egli per primo saltò stando a cavallo e dopo di lui i componenti del seguito. Dalla folla ingionocchiata dei miserabili non si levò un grido, né una protesta.
Ma la macabra prepotenza arciducale non restò ignorata. Lo si seppe a Vienna e il Pernersdorfer (socialista attuale vicepresidente della Camera dei deputati eletto col suffragio universale nelle elezioni del 1907) portò la questione in parlamento, stigmatizzando il principe schernitore di cadaveri. Le rivelazioni del Pernersdorfer indignarono l’opinione pubblica e impressionarono i circoli imperiali. Alla sera dello stesso giorno, mentre Pernersdorfer rincasava, venne aggredito da quattro sicari dell’arciduca e bastonato a sangue. La polizia, per salvare le apparenze, rintracciò, identificò, arrestò i colpevoli. Ma alla vigilia del processo un’ordinanza del ministro di giustizia imponeva il non luogo a procedere e la scarcerazione degli imputati. Questa violazione della legge della procedura penale fu voluta personalmente dall’imperatore. Questo macabro arciduca, e molti altri suoi compagni di orgia conobbero gli amplessi della bella Elena che, rimasta dopo qualche anno vedova, ebbe e concesse la libertà alla schiera dei don Giovanni della corte austriaca. In breve dilapidò le ricchezze trasmessele dal padre, quelle accumulate dal marito e mentre nel suo volto comparivano le prime rughe della vecchiaia, la miseria batteva alle porte della principesca abitazione.
Elena di Vetsera non aveva che un’ultima via di scampo: sfruttare sapientemente la bellezza meravigliosa delle figlia sedicenne Mary. Costei veniva chiamata Circe e questa reminescenza mitologica era pienamente giustificata. La madre declinava rinunciando ormai per sempre al battagliare dei facili amori e, al suo posto, sorgeva la figlia. Accanto al tramonto melanconico l’aurora gloriosa, fascinatrice. Dopo Elena, mary la Maga, che doveva portare nei suoi baci la voluttà della morte.

Mary si propose di conquistare Rodolfo d’Austria. La figlia della baronessa spiantata aveva concepito un superbo segno. Lo realizzò ed ecco come.
La baronessa madre, cioè Elena, era legata da intima amicizia colla contessa Larish, nata baronessa di Wallersee. La contessa Larish era figlia di un principe bavarese di un’attrice, ed era nipote dell’imperatrice Elisabetta. Quando i suoi genitori morirono, la contessa Larish venne ospitata alla corte austriaca. Durante i soggiorni frequenti della corte a Godolo (si scrive con i puntino sulle “o”) in Ungheria la giovane orfanella era fida compagna dell’imperatrice. Conobbe allora Rodolfo, trattandolo da cugino. Dopo essersi sposata col ricchissimo conte Larish, coltivò l’amicizia di Rodolfo, seppe dell’infelice matrimonio di lui. Ne favorì talvolta le avventure amorose. Mary confidò alla contessa Larish il suo ardente desiderio di conoscere Rodolfo. La contessa promise che avrebbe fatto il possibile. Dopo alcuni giorni il palazzo del conte si aperse per una grande festa da ballo alla quale venne invitato il principe ereditario Rodolfo. La società era splendida e le bellezze femminili abbondavano. Ma Rodolfo si annoiava. Gli era stata promessa una gradevole, straordinaria sorpresa e quantunque la festa fosse giunta alle ore piccine, la sorpresa si faceva attendere invano. La contessa che aveva preparato l’intrigo, lo pose a compimento. Chiamò in disparte Rodolfo, lo condusse lontano dal ballo, dischiuse la portiera di un piccolo salone destinato a colpevoli intimità e lasciò il principe con queste parole: “Altezza entrate”.
Rodolfo ebbe un minuto di esitazione. Ma fatti alcuni passi in avanti, il suo occhio incontrò lo sguardo profondo e ardente di una fanciulla bellissima distesa sopra un ampio divano.
Il principe stupito e rapito tacque. Poi dopo breve e concitato parlare, egli strinse Mary, la volle e la Maga si diede, senza resistenza, colla passione acuita da una lunga attesa. Quella notte Rodolfo non entrò più nel salone da ballo. Uscì invece colla deliziosa Mary e con lei restò fino a tarda ora del mattino seguente.
Da quel giorno Rodolfo fu vinto. I baci di Mary Vetsera gli facevano dimenticare moglie, famiglia, amici e doveri della corona. Nel castello di Mayerling, vecchi castello abbandonato nelle vicinanze di Vienna, i due amanti trascorsero parecchie lune di miele. Mary faceva ancora frequenti apparizioni a corte. Portava ricchissimi gioielli. Non tardò molto a conoscere il donatore. Era Rodolfo.
Lo scandalo scoppiò. Francesco Giuseppe richiamò il figlio a dovere, ma senza risultato. Né miglior successo ebbero le preghiere della madre Elisabetta. La passione dei due amanti era invincibile, immortale. Intanto a complicare la situazione si aggiunse la gravidanza di Mary. Quando la vecchia e scaltra baronessa Elena conobbe lo stato interessante della figlia, concepì un diabolico piano. Mary non doveva essere solo l’amante del principe, ma doveva divenire sua moglie: imperatrice!
Mary, sobillata astutamente dalla madre, pose a Rodolfo il supremo dilemma: o egli consentiva di sposarla morganicamente legittimando il figlio, o ella sarebbe fuggita lontano, in paese straniero, abbandonando per sempre Vienna e l’Austria. Questo dilemma abbattè Rodolfo. Egli cercò dapprima di convincere la madre di Mary, offrendole fra l’altro ingentissime somme di denaro, ma invano.
La situazione divenne ogni giorno sempre più critica. Il principe osò fare l’ultimo passo. Chiese una udienza al padre. Il drammatico colloquio si svolse nella biblioteca privata dell’imperatore. Rodolfo lo racconto, prima di morire, ad un amico intimo che vive ancora nelle vicinanze di Budapest.
L’imperatore stava sfogliando un ricchissimo album d’araldica, quando il valletto gli annunciò la visita del figlio. Questo si inchinò profondamente, mentre il vecchio lo abbracciava con una fredda occhiata interrogativa.
“Padre”, incominciò Rodolfo, “il motivo per cui sono venuto qui è di una gravità estrema…”.
A queste parole, l’imperatore non poté trattenere un movimento di sorpresa.
“Voi conoscete, senza dubbio, la mia relazione con Mary Vetsera…”. L’imperatore divenne pallido, aggrottò le ciglia e con un gesto secco ordinò al figlio di proseguire. “Ebbene, io voglio sposarla… io voglio…”.
Non poté terminare la frase… ’imperatore si era alzato, fremente di collera e: “Voi siete pazzo, Rodolfo, solo a concepire simili proposte… Non avete orse una moglie davanti a Dio e agli uomini? E non siete voi destinato a portare la corona imperiale? Non tollererò mai che la corona dei miei gloriosi antenati venga trascinata nel fango da una miserabile cortigiana qualunque… Ciò che dite è indegno di un principe ereditario di casa d’Austria… Riflettete e liberatevi di una relazione che vi può da un giorno all’altro coprire di ridicolo o d’infamia… e con voi la nostra casa, lo stato… di cui un giorno dovrete reggere i destini…”. Sotto queste parole, Rodolfo chinò il capo, ma poi rinnovò le sue implorazioni. “Padre io non potrò vivere senza Maria Vetsera… sono disposto a rinunciare al trono…
Mi ritirerò a vita privata in un villaggio…”.
No gridò l’imperatore, e le sue lunghe braccia tagliarono l’aria con un geso tragico.          “No! Mai! Mai!… Comprendete? Voi lascerete la femmina, non già la corona. Il popolo ha già riposto troppe speranze in voi, e non dev’essere disilluso da un vostro deplorevole capriccio… Rodolfo, ritiratevi e meditate! Forse abbandonerete i vostri infami propositi, senza rimettermi nella dolorosa situazione di dovere punirvi e forzarvi a migliore consiglio…”.
Rodolfo comprese ch’era inutile insistere e si ritirò. Giunto nelle sue stanze diede sfogo alla piena indicibile del suo dolore e si gettò singhiozzando sul letto. Il colloquio col padre, lo aveva accasciato. L’avvenire gli si presentava torbido. Quali vie gli restavano per raggiungere lo scopo e unirsi a Mary Vetsera? Passarono molti giorni di desolazione. Rodolfo non usciva dai suoi appartamenti, malgrado le ingiunzioni e le minacce paterne. Alla fine, dietro consiglio della contessa Larish, decise di scrivere una lettera direttamente al Papa, implorando la libertà di sciogliere il primo vincolo matrimoniale contratto con Stefania di Belgio. Il Papa Leone XIII rimase fortemente sorpreso e s’irritò alla lettura della strana, inaspettata missiva. Egli non rispose al principe, bensì all’imperatore negando la chiesta autorizzazione di divorzio in nome degli interessi supremi del cattolicesimo e della casa d’Austria, antica e fedele protettrice della Chiesa di Cristo.
La lettera del Papa turbò profondamente l’imperatore. Egli fece subito chiamare Rodolfo. Il colloquio fra padre e figlio fu questa volta più affettuoso. Del resto la salute fisica di Rodolfo pareva seriamente minacciata e il medico di corte aveva consigliato al principe riposo e calma. Il vecchio monarca ebbe un movimento d’affetto. Abbracciò singhiozzando il figlio. Gli partecipò la risposta del Papa, lo esortò a guarire dalla passione, che lo distruggeva. Rodolfo promise, giurò anzi che avrebbe abbandonato senza indugio Mary di Vetsera.
Questa decisione piacque al monarca e fu celebrata con una piccola cena intima alla quale partecipò Rodolfo. Egli si seppe dominare. Conversò affabilmente col padre, si dimostrò rassegnato tranquillo… Invece nell’animo suo tutta la tempesta della passione muggiva, scatenata oramai irresistibile nell’imminenza della catastrofe.

La notte di sangue

“Nell’animo suo tutta la tempesta della passione muggiva, scatenata oramai irresistibile…”

Si. Malgrado le promesse e i giuramenti solenni prestati nelle mani del padre, Rodolfo non poteva dimenticare così facilmente Mary Vetsera.
I gesuiti della corte si posero intanto all’opera. Circondarono Rodolfo e dispiegarono per ridurlo definitivamente alla volontà paterna, tutte le loro sottili, diaboliche arti. Riuscirono parzialmente allo scopo. Rodolfo aveva oramai deciso di abbandonare Mary. La sera del  giorno in cui avvenne la riconciliazione fra l’imperatore e Rodolfo, Mary Vetsera aveva trascorso alcune ore in compagnia della contessa Larish. A costei ella aveva confidato certi suoi dubbi sulla fedeltà di Rodolfo e la possibilità di un abbandono definitivo. La contessa Larish aveva fatto notare alla sua amica che Rodolfo non era un uomo come tutti gli altri e che doveva far tacere la voce del cuore, se le esigenze di stato lo imponessero. Ma queste spiegazioni non calmarono Mary. Ella non si rassegnava in alcun modo a perdere l’uomo che amava pazzamente. Piuttosto la morte! Meglio il delitto! “Il mi vendicherò terribilmente”, dichiarò con voce ferma Mary. “Sarò io l’ultima amante del principe ereditario d’Austria… Io chiuderò per sempre il ciclo dei suoi amori!…”.
Queste minacce impressionarono la contessa Larish. Non appena Mary si fu congedata, la contessa scrisse immediatamente al principe avvertendolo dei propositi di Mary e consigliandolo di tènersi guardingo nella tema di una vendetta improvvisa.
All’indomani gli spioni di corte (fra essi un confessore)n annunciarono a Mary Vetsera la risposta di Leone XIII e l’avvenuta riconciliazione tra l’imperatore e il figlio. Nel pomeriggio dell’istesso giorno Mary si recò a corte. I valletti del principe non volevano lasciarla entrare, ma, dietro le energiche insistenze di lei, finirono col cedere. Del resto ell’era ben nota a corte! Quale scena si svolse poi nelle stanze private di Rodolfo? Non lo si saprà mai esattamente. Nessuno degli intimi spiava alle porte, nessuno udì il dialogo che dev’essere stato certo drammatico e violento. Ma dagli avvenimenti che si svolsero poi, è lecito arguire che il colloquio ebbe termine con una parziale riconciliazione fra i due amanti.
Rodolfo mancò alla promessa fatta a suo padre. Egli non ebbe il coraggio di cacciare Mary, non seppe esistere alle grazie di lei e finì per cederle ancora una volta fra le braccia. Mary aveva ormai rinunciato ai suoi imperiali sogni di gloria: rinunciava a divenire moglie legittima di Rodolfo, rinunciava perfino ad essere la di lui amante ufficiale: chiedeva solo ancora una notte di intimità in quel dolce castello di Mayerling che aveva ospitato la sua tragica, infelice passione. Rodolfo non poteva rifiutarle quest’ultimo desiderio.
Convennero di ritrovarsi nel pomeriggio dell’indomani a Mayerling. Intanto Mary partiva subito alla volta del fatale castello. Ell’aveva già meditato e risolto di compiere quell’orrenda vendetta.
Ventinove gennaio 1889! Ecco la data che la Storia doveva segnare con le cifre di sangue. Verso le due pomeridiane di quel giorno nevicava e le strade gelate erano divenute impraticabili. Rodolfo aveva promesso di recarsi a Mayerling e non sapeva in che modo, a cagione del tempo infame. Alla sera poi egli doveva trovarsi a un importantissimo pranzo intimo a corte. Poche ore gli rimanevano per recarsi da Mary. Pensò dapprima di utilizzare una slitta, ma all’ultimo momento, per diversi contrattempi, dovette rinunciarvi. Alla fine, esasperato ed impaziente, fece chiamare il suo fido cocchiere privato Bratfish, ordinandogli di preparare immediatamente la solita vettura.  Rodolfo partì poco dopo in incognito, diretto a Mayerling. Fuori di città i cavalli dovettero rallentare la corsa: le strade erano ghiacciate. Il viaggiò proseguì al passo. Quando le prime ore della sera calarono, Mayerling era ancora molto lontana. A metà strada la vettura di Rodolfo incontrò un gruppo di cavalieri reduci dalla caccia nei dintorni di Mayerling. Alla testa cavalcava il principe Filippo Coburgo, cognato di Rodolfo. Quando i due personaggi si videro, sfuggì a entrambi in vivo movimento di sorpresa. Bratfish fermò la vettura. Rodolfo discese e così pure fece da cavallo Filippo, mentre i compagni al seguito si allontanarono al piccolo trotto.
I due cognati si trassero alquanto in disparte sul margine della strada in preda a una vivissima agitazione e si sforzava invano a concentrarsi e di apparire tranquillo. Ma Filippo non poteva ingannarsi. Egli conosceva la tresca e supponeva lo scopo del viaggio.
“Sai”, disse Filippo “che questa sera c’è un pranzo privato a corte al quale tu non puoi né devi mancare. Se prosegui per Mayerling è difficile che tu ritorni in tempo… E’ oramai troppo tardi… Le strade sono pessime… Torniamo insieme…”.
“E’ impossibile rispose Rodolfo con voce leggermente alterata. “Debbo raggiungere Mayerling… C’è qualcuno che mi aspetta… Un principe non può mancare a una parola data… D’altra parte ho già compiuto due terzi del cammino… Tornare, quando la meta è vicina, sarebbe ridicolo… Addio Filippo”.
Ma Filippo lo afferrò per un braccio e lo implorò: “Rodolfo, per il bene che ti voglio, per la tranquillità delle nostre famiglie, per gli interessi supremi dello Stato, per il tuo avvenire, per la tua sicurezza personale, non andare stasera a Mayerling…”.
“C’è qualcuno a Mayerling che mi minaccia?”. Chiese Rodolfo con voce strozzata.
“tu lo sai bene ha chi ho dato questo convegno… a Mary Vetsera… è l’ultimo… E non posso mancare senza commettere un obbrobrioso tradimento…”.
“Ma non temi dunque le insidie di quella donna funesta? La contessa Larish non ti ha informato delle…”. “Si ho ricevuto dalla contessa Larish un bigliettino in cui mi avvertiva dei fieri propositi di Mary… Ma io conosco troppo bene la piccola baronessa di Vetsera, la Maga, la Circe nuova… perché debba temerle… Le donne che amano non possono far del male agli amanti…”.
“Ma tu l’ami ancora?”, domandò atterrito Filippo.
“Forse…”, rispose laconicamente Rodolfo.
“E le tante promesse che hai fatto a tuo padre?”.
“Le manterrò… col tempo… il cuore ha i suoi diritti eterni…”. “Disgraziato forse stai per commettere una suprema follia… Torniamo a Vienna… troveremo modo di giustificare plausibilmente il nostro ritardo… E se non verrai che cosa dovrò dire a Sua Maestà, tuo padre?”. “Non preoccuparti di ciò… Spedirò un telegramma… E poi conto di arrivare in tempo… L’ora incalza… Addio Filippo…”.
Mentre i due cognati si abbracciarono, dalla parte di Mayerling giungeva una vettura al gran galoppo… Mary di Vetsera inquieta, per il ritardo, moveva ad incontrare l’amante imperiale. Ella discese ed osservò muta per alcuni secondi. Non appena l’ebbe scorta, Filippo si inchinò profondamente, montò quindi a cavallo e scomparve, in fondo alla strada bianca segnata da un duplice filare di pioppi che dentellavano l’orizzonte colle loro cime.
 Da una specie di turbante orientale uscivano ciocche brune e odorose di capelli… Nelle pupille parevano raccogliersi tutte le luci della sera… Bratfish che aveva pazientemente aspettato, tornò a Vienna. Rodolfo e Mary proseguirono per Mayerling. Durante il tragitto non si scambiarono parola. Il vento sferzava i loro volti e portava lontano, attraverso i campi, lo scampanio violento delle sonagliere dei cavalli.
Dopo un’ora, Mayerling, l’antico chiostro, emerse dall’ombra. Molte delle sue finestre erano illuminate. Al rumore della carrozza che giungeva pel viale, i cavalieri e gli amici di Rodolfo vennero ad ossequiarlo nel vestibolo. Egli discese e ricambiò distrattamente parecchie strette di mano. Era visibilmente preoccupato. Mary invece raggiava.
Rodolfo non avrebbe voluto trovare quei cavalieri reduci da una caccia. Oramai bisognava partecipare ad una cena in comune. La situazione si complicava. Prima ebbe un breve colloquio con Mary. Non appena furono soli, ella gli gettò le braccia al collo. Cercò colla sua, la bocca di lui e si baciarono lungamente. Rodolfo, perduto taceva. Ma dopo, in un momento di tristezza e di riflessione, osò dire: “Mary, è necessario che io ritorni subito a Vienna… Subito, intendo… Stasera c’è un pranzo intimo a corte  e mio padre mi ha quasi imposto di non mancare…”.
A queste parole Mary in un improvviso movimento di collera… ma poi si ricompose a dolcezza.
“Già lasciarmi, Rodolfo? E la tua parola? Non mi avevi promesso una notte, un’ultima notte d’amore?… Ah? Rodolfo… Giustifica con un telegramma la tua assenza e non essere avaro verso la tua buona amica fedele delle ultime ore di gioia che le concedi… Dopo… domani… da domani la mia vita non avrà più scopo, più significato… Tornerò la baronessa di Vetsera, nell’attesa di un marito vecchio e rimbecillito che mi pagherà dei gioielli   perché io lo tradisca… Dopo la nostra grande passione, la solita vita di mediocrità… Rodolfo non lasciarmi stasera qui, sola, in balia forse di qualche malvagio… tra i cavalieri che ti attendono a cena ve n’è uno che mi assedia e mi esaspera da lungo tempo… E’ un personaggio che mi ripugna e che temo… Ho paura di lui… Rodolfo non lasciarmi… No… tu non partirai… Voglio averti ancora una volta tra le mie braccia… Avrò per te ineffabili voluttà supreme di cui il ricordo non potrà mai più cancellarsi dall’anima tua e dai tuoi sensi… Rodolfo… io t’amo… ti amo… ti amo…”.
E le bocche degli amanti s’incontrarono  nuovamente… alcuni minuti di silenzio, poi Rodolfo disse: “Ebbene non partirò… Ma chi è il cavaliere che t’insidia?”:
Mary ebbe negli occhi un lampo di diabolica gioia. Aveva suscitato la gelosia nell’animo di Rodolfo. Ell’aveva vinto. “E’ inutile mio adorato che ti dica il nome di quel tristo personaggio… Io l’ho respinto e lo respingerò sempre… Non angustiarti per lui… Amiamoci, che l’ora è breve e fugace…”. Dopo qualche tempo, Mary e il principe discesero nella sala da pranzo. La gioia regnò durante il convito. Anche Rodolfo volle mostrarsi allegro. Alla fine Mary, alquanto ebbra, cantò due romanze polacche. Il principe non tenne circolo. Verso le dieci la brigata si sciolse e ognuno riguadagnò le proprie stanze. Dopo un’ora tutti i lumi si spensero alle finestre e il castello di Mayerling s’addormentò nella tenebra della notte del sangue.

Mry avva già meditato la vendetta e una vendetta atroce quale può germinare nell’animo di una femmina ambiziosa e dissoluta. Non noi sappiamo quanto sia accaduto tra i due amanti. Potremmo inventarlo, ricostruirlo, ma cadremmo nel romanzesco, e questa invece è narrazione documentata. Probabilmente dev’essere scoppiata una violenta crisi di gelosia, esasperata dall’abbandono. Fatto si che verso mezzanotte Rodolfo diè in un acutissimo, straziante grido di dolore. Mary aveva effettuata la spaventosa minaccia e compiuto un’abbominazione: aveva evirato l’uomo addormentatosi poco prima al fianco di lei nella fiducia e nella dolce stanchezza de’ baci. Il sangue correva per i lini canditissimi del letto, mentre Mary discinta cercava di raggiungere la porta per fuggire. Rodolfo nello spasimo del sovrumano dolore, dopo le prime imprecazioni, non parlava più. Egli era ricaduto come morto sul letto. Mary intanto s’era rivestita e già stava la soglia della stanza fatale, quando Rodolfo la raggiunse e la finì con un colpo di revolver. Ella stramazzò a terra. Rodolfo l’aveva uccisa. La ripose sul letto, la coverse e le si mise al fianco. Dopo pochi minuti un’altra sorda detonazione… Rodolfo s’era ucciso, egli non poteva sopravvivere a l’onta infame. La scena fu rapidissima. Nessuno degli addormentati del castello si svegliò.

Alla mattina dopo, 30 gennaio, verso le 8, i cavalieri del seguito aspettavano il principe per ritornare insieme a Vienna. L’ora fissata era già trascorsa, e Rodolfo, sebbene puntualissimo, non si faceva vedere. Il ritardo inquietava. Finalmente verso mezzogiorno l’ungherese conte Hoyos, intimo del principe, si decise a bussare alla porta per risvegliarlo. Ma nessuno rispose. Dopo ripetuti colpi, temendo qualche sventura, il conte Hoyos ordinò ai domestici di abbattere la porta… il nobile ungherese soffocò un grido di terrore e retrocesse inorridito. Sul letto giacevano i cadaveri di Rodolfo e di Mary, bellissima anche morta. Sul pavimento v’erano qua e là larghe chiazze di sangue. Nell’aria chiusa della stanza si diffondeva l’acre odore della strage. Negli angoli agonizzavano avvelenati dei grandi mazzi di fiori. Da una tempia di Rodolfo colava ancora lentissimamente un sottil filo di sangue. Mary invece aveva il volto intatto, le labbra atteggiate al sorriso della vittoria suprema. L’annuncio ferale venne dato immediatamente a corte dallo stesso conte di Hoyos che si presentò all’imperatore. Elisabetta ha portato per tutta la vita il lutto del figlio spentosi a Mayerling. Rodolfo e Mary dormono insieme il sonno che non ha risveglio nel parco del castello che fu da quel giorno abbattuto per sempre.
Trento 1909

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